Scroll Top

Adulto amico….insieme è meno difficile…

Come accettare ed affrontare in due le fragilità della vita


Autori: Dr.ssa Sara Giugni e Dr.ssa Claudia Jasmin Marelli1

Cosa succede se come psicologi ci troviamo di fronte ad una persona sofferente, con un disagio che compromette la sua autonomia o la sua vita relazionale e sociale? E cosa succede se ci rendiamo conto che la psicoterapia, il supporto psicologico e/o quello farmacologico sono importanti ma non sufficienti? E ancora, quando un familiare di un adolescente chiede aiuto ad uno specialista perché il proprio figlio non è in grado di uscire da solo di casa e non riesce ad instaurare alcun tipo di relazione sociale, che cosa ha senso proporre?

Su queste e altre molteplici domande l’équipe del Centro Eos i è interrogata a lungo ed ha cercato di proporre una soluzione alternativa alla comunità di recupero che fosse al tempo stesso un intervento di supporto psicologico, educativo e, laddove fosse necessario, anche farmacologico.

Di fatto abbiamo cercato di affiancare ai differenti approcci preesistenti un’alternativa psico-educativa che si ponesse come obiettivo il raggiungimento di un maggior benessere psicologico della persona e con esso anche la conquista di una maggiore autonomia personale e sociale.

E’ così che all’interno dell’equipe del Centro Eos è nata l’idea dell’ “Adulto Amico”, ovvero di quell’adulto, in questo caso lo psicologo, che, uscendo dal suo abituale setting, lo studio, entra nella realtà quotidiana e privata della persona che chiede aiuto e cerca di farvi fronte. E’ così che l’adulto professionista si affaccia, dapprima in punta di piedi e in un secondo momento in maniera più significativa, nel “setting privato” della persona, il suo domicilio.

Per il terapeuta entrare nella vita quotidiana di una persona significa perciò, in primis, rispettarne i tempi e le abitudini, osservare ed ascoltare le esigenze e le aspettative dell’interessato e della famiglia, accettare le “normali” difese che inizialmente si presentano, cercando di capirle per comprenderne a pieno il senso. Tutto ciò significa collaborare, fungere da mediano con la famiglia e il mondo esterno; una specie di trampolino per le relazioni sociali e allo stesso tempo scudo per le difficoltà che continuamente emergono e che in futuro potrebbero ripresentarsi.

È così che lo psicologo perde la sua cornice di riferimento standard, il famoso setting psicoterapeutico, per assumerne uno diverso che permetta l’instaurarsi di una relazione interpersonale più intima e meno protetta per il terapeuta. Questo non vuol dire però che all’interno di uno studio psicologico e psicoterapeutico non vi sia relazione, tutt’altro, ma questa sicuramente è limitata al tempo e allo spazio prestabiliti, cosa che non avviene differentemente all’interno del domicilio del paziente. Per il terapeuta, infatti, abbandonare lo studio significa allontanarsi anche da una situazione più protetta che in certi casi può agevolarlo per l’insita protezione che questo implica. Con l’adulto amico lo psicologo affronta vis a vis le reali difficoltà e tocca con mano il limite col quale la persona sofferente è costretta a convivere quotidianamente.

A chi si rivolge?

L’Adulto Amico è stato studiato su una casistica di persone con le quali un percorso psicoterapico standard può essere difficile da iniziare, mantenere o rischia di essere prematuro.

In certi casi in cui è presente una disabilità psicofisica più o meno grave, sintomatologia psicotica, adolescenti che non hanno acquisito competenze relazionali (che passano la loro vita chiusi in casa attaccati al computer o che non hanno amicizie particolari) o che le hanno perse per svariati motivi si è visto che è la probabilità di fallimento terapeutico è elevata.

In queste situazioni si è visto che l’ascolto, l’aiuto psicologico e/o quello farmacologico non sempre bastano, c’è bisogno di un occhio interno alle dinamiche quotidiane della persona.

Questo non significa escludere la possibilità di una psicoterapia o la necessità di un supporto farmacologico, è un lavoro che si colloca ad un altro livello sia per la persona che per il terapeuta.

Quando la patologia frantuma l’ autonomia dell’individuo e lo relega all’interno delle domestiche e la persona si ritrova circondata solo dalle figure familiari, , serve l’aiuto di uno specialista che veda con i propri occhi le difficoltà del soggetto, aiutandolo a ridimensionare gli aspetti della sua vita che sente disfunzionali.

Come muoversi

Primo incontro luogo e ambiente relazionale
Il primo incontro è consigliabile che avvenga in un luogo protetto e sicuro per la persona che si prende in carico. Di fatto per la stessa trovarsi in relazione con uno sconosciuto, e in un contesto privo di connotazione famigliare, almeno in prima battuta, può risultare destabilizzante.

Il paziente gradualmente troverà nel ‘Adulto Amico’ un punto di riferimento altro rispetto al nucleo famigliare, ma questo non può avvenire se non attraverso quest’ultimo che, per quanto a volte elemento di forte problematicità, resta comunque il punto di contatto primario con il mondo esperienziale del paziente.

Cercare di comprendere il quadro di relazioni della persona
Alla luce di quanto detto al punto 1, non si può prescindere dalle relazioni e nemmeno dal loro livello di qualità interna.

Per un operatore che intenda intraprendere tale iter terapeutico-riabilitativo è necessario analizzare le dinamiche famigliari, il contesto psichico entro cui è inserito il paziente.

Quando poi ad essere protagonista di cure è una persona portatrice di problematiche di entità ancor più conclamata come ritardi mentali (da quelli di più lieve a quelli di più grave entità), disabilità, autismo o patologie psichiatriche debilitanti, il ruolo dei famigliari e il livello di compliance terapeutica si fa ancor più centrale.

La negazione, la dissociazione, la scissione e la rimozione appaiono essere i meccanismi di difesa più evidenti, pertanto un operatore che non consideri tali aspetti non può che rischiare di incappare in linguaggi non condivisi o drop-out repentini.

Instaurare una relazione non troppo confidenziale (ricordarsi che si è uno sconosciuto)
È necessario per chi opera questo intervento cercare di ricordarsi del proprio ruolo anche se si è in assenza di un setting definito.

Il terapeuta ha l’obbligo di ricordare l’obiettivo del suo lavoro ma senza dimenticare che la destrutturazione dell’ambiente terapeutico in cui si trova inserito, a tratti, è meno protettiva per lui (terapeuta) che per il paziente.

Conoscere le competenze della persona (ex cosa sa fare e cosa no)
Al fine di poter permettere alla persona di entrare in contatto con la vita di tutti i giorni in maniera graduale e adeguata al proprio livello di competenza, è fondante un’esposizione a stimoli proporzionati alla persona.

Ogni ‘Adulto Amico’ è diverso dall’altro e solo un operatore attento eviterà di sottoporre il paziente a stimoli “insignificanti” perché ormai già presenti nel bagaglio dello stesso o all’opposto “frustranti” perché irraggiungibili.

Conoscere i movimenti relazionali della persona prima di metterne in atto altri
Effettuare un’attenta analisi del funzionamento psichico del paziente permette di comprenderne maggiormente le azioni e il sottostante significato che esse comportano, consci dell’imprevedibilità che soggiace ad ogni essere vivente.

Tenere a mente ciò agevola nella valutazione delle situazioni di vita in cui gradualmente inserire il paziente, in una dimensione in cui l’operatore possa anche gestire eventuali imprevisti.

A tal proposito la supervisione costante esercita un ruolo di estremo rilievo sia per valutare la relazione tra paziente e terapeuta che le scelte del terapeuta stesso.

Il caso di Viola

Viola è una ragazza di 16 anni, solare, ironica, a tratti riservata e suscettibile. La sua vita è da sempre caratterizzata da una forte difficoltà ad entrare in relazione con l’altro, da atteggiamenti ossessivi e da una forte vena “fanciullesca”. In realtà Viola quando giunge al Centro Eos è molto sofferente, fatica a godersi la semplice quotidianità della vita perché pensieri distruttivi e a tratti angoscianti le invadono la mente. Oltre a questo Viola mostra notevoli difficoltà anche nelle semplici attività domestiche in quanto affetta da un leggero ritardo mentale. Per lei l’autonomia è qualcosa di molto lontano, il nucleo familiare, numeroso e molto protettivo, è la sua unica sua fonte di benessere e di sicurezza. È per tale motivo che anche la più semplice delle attività diventa motivo di forte stress e ansia.

L’equipe del Centro Eos si attiva per fornire a Viola l’intervento dell’ Adulto amico, inizialmente per due volte a settimana a domicilio. L’obiettivo del progetto prevedeva un recupero minimo della propria autonomia e un ingresso graduale nel mondo sociale per favorire interesse e motivazione personale.

I primi passi

Per certi versi lo psicologo che riveste i panni dell’Adulto Amico rappresenta anche la figura che incanala il paziente “attraverso i primi passi” verso una nuova autonomia extra-familiare. Questo avviene ad esempio quando un adolescente o un adulto “compromesso” non sono in grado di essere liberi di gestire la propria vita quotidiana.

In parole povere lo psicologo può iniziare ad aiutare l’individuo a svolgere attività quotidiane più pratiche come la gestione del denaro, delle pulizie di casa, del telefonino, delle attività di cucina. Successivamente, con il raggiungimento graduale dei precedenti obiettivi, può agevolare il graduale ingresso all’interno di contesti sociali che possano permettergli di instaurare anche relazioni sociali. Uscire insieme, svolgere attività creative e/o culturali in comunanza, avvicinarlo al mondo della musica e dell’arte sono mezzi terapeutico – riabilitativi efficaci e gratificanti per l’individuo in causa.

È importante che il progetto riabilitativo preveda una parte da dedicare all’elaborazione dei vissuti da parte del ragazzo insieme allo psicologo e alle difficoltà che via via emergono. Queste attività, possono condurre spesso la persona a provare sentimenti di gratitudine e di soddisfazione personale, ma anche emozioni “negative” e di svalutazione quando le aspettative risultano troppo alte o irrealistiche. Per tali motivi, quindi, è fondamentale la presenza del terapeuta per sostenere ad elaborare i vissuti d’inadeguatezza e capirne le sottostanti dinamiche. È così che spesso, in situazioni d’iniziale sofferenza e disagio da parte del giovane, possono nascere delle nuove abilità accompagnate da una graduale e fondamentale consapevolezza psicologica.

Per Viola ad esempio non è stato facile accettare le sue reali e notevoli difficoltà durante il suo periodo di tirocinio. Attività questa vissuta dalla ragazza come qualcosa di estremamente frustrante anche perché sorta in seguito a delle importanti gratificazioni dettate da risultati eccellenti raggiunti in ambito teorico. Con Viola è stato necessario affrontare le sue difficoltà e accettare i suoi evidenti limiti per tarare il progetto verso obiettivi più facilmente raggiungibili.

Nel caso come qui sopra descritto, per cui certi obiettivi potranno essere irraggiungibili, l’arduo compito dello psicologo si orienterà verso la consapevolezza dei limiti della persona al fine di costruire una nuova verità in un processo di maturazione che porta il giovane alla riprogettazione della sua vita.

Ciò che spesso si vive nella relazione con queste persone è la sensazione della perdita e/o della mancanza di progettualità e di stimoli: sembra che in loro manchi la voglia di ingaggiarsi in situazioni sociali, il desiderio di una nuova possibilità, di un sogno.

Lentamente la persona, attraverso la graduale sperimentazione quotidiana delle proprie capacità e degli aspetti personali impiegati nello svolgimento di attività ludico-ricreative, viene condotto per mano alla scoperta di nuovi aspetti di sé dai quali trarre giovamento e gratificazione, sperimentando così un senso di Sé positivo.

Per Viola ad esempio è stato molto gratificante sperimentarsi nell’ambito della cucina e vedere in prima persona realizzare dei dolci o dei primi piatti da poter offrire anche ai propri familiari.

Di fronte alle frustrazioni che si possono presentare durante il percorso, si giunge ad effettuare una riflessione congiunta rispetto a sé a al proprio contesto ambientale, esaminando ciò che è possibile modificare e ciò che, a fatica, bisogna imparare a gestire.

La sfida non è tanto quella di far vivere il paziente secondo l’utopia della felicità, ma quella di permettergli di fare esperienza di sé, anche all’interno dei propri limiti.

Per Viola forse questo è stato uno dei passaggi più critici sia per lei che per la famiglia che, a tratti, è apparsa quasi negare le limitazioni psico-fisiche della figlia, in un’illusione costante (assolutamente comprensibile) di una più canonica normalità.

Questo cammino non è privo di difficoltà per il professionista, conseguenti ad esempio alla mancanza della protezione del setting. Lo psicologo che veste i panni dell’Adulto Amico ad esempio può provare sensazioni di nudità e d’impotenza all’interno di un contesto a lui sconosciuto come l’ambiente di vita del paziente.

Riappropriandosi gradualmente della propria libertà la persona inizia così a porsi nel mondo come soggetto attivo rispetto ai propri bisogni .

Viola ad esempio ha vissuto con grande fatica il momento in cui gli obiettivi dei familiari si sono rivelati troppo difficoltosi per le sue capacità. Questo ha comportato un iniziale sconforto, sul quale poi si è dimostrato essere materiale ulteriore di riflessione da parte dell’adulto amico. E’ stato a tal punto necessario riformulare gli obiettivi terapeutici in modo meno faticoso e più tollerabile per Viola, generando così in lei nuovamente sentimenti positivi.

Conclusioni

Alcune tra le domande più ricorrenti che, più o meno inconsapevolmente, i famigliari di persone sofferenti di disagi debilitanti si pongono sono: “Ma quando noi non ci saremo più?”… “Cosa farebbe se non ci fossi/fossimo?”
Questo soprattutto se si tratta di pazienti che vivono un forte legame di dipendenza sia psichico che gestionale.

Alla luce di quanto esposto possiamo affermare che l’attività dell’Adulto Amico consiste, tra i vari aspetti, nell’essere traghettatore del paziente da una dimensione individuale di sofferenza, ad una socializzazione fino alla possibilità di condivisione di problematiche interne.

Tale attività si realizza sostenendo anche i vari membri della famiglia verso una comunicazione chiara e condivisibile che permetta anche di prendere in considerazione l’intenzionalità del soggetto a sperimentarsi e il proprio mondo interno emozionale. La persona viene così accompagnata e sostenuta verso comportamenti più funzionali alla sua crescita e supportato nelle sfere di fatica.

L’alleanza tra le diverse parti coinvolte nell’intervento porta progressivamente il nucleo familiare a iniziare a concepirsi come contenitore positivo all’interno del quale far prevalere la cultura dell’ascolto, dell’accoglienza e della libera espressione di sé, responsabilizzandosi e condividendo un progetto comune.

Non esiste un unico modo di operare dell’Adulto Amico, ma vi sono trattamenti differenti a seconda della persona e della propria storia personale, che mirano a concentrarsi prevalentemente sulle capacità adattive del soggetto.

Il sostegno offerto da questa figura terapeutica permette alla persona sofferente di mettersi in gioco differentemente nella relazione con l’altro, all’interno del gruppo sia familiare che extrafamiliare.

Tutto ciò al fine di scardinare la rigidità del sintomo e del malessere.

In questo modo ciò che era stato bloccato o messo da parte può tornare a esprimersi in modo gradatamente più costruttivo e funzionale.

[1] Psicologhe Centro Eos Pavia