In questo podcast verrà introdotta la nuova rubrica del Centro EOS sul tema delle immagini e della psiche. Ogni mese la Dr.ssa Susanna Toppino psicologa del centro pubblicherà un’immagine da lei creata che verrà sottoposta a tutti per sentire quali risonanze questa abbia sulle persone che si prenderanno del TEMPO per osservarla.
Prenditi cura
Ho scelto di iniziare questa rubrica con il concetto del prendersi cura.
Il tema della cura è centrale all’interno della terapia: possiamo concepirlo come il tempo e lo spazio che ognuno decide di dedicare a se stesso, mettendosi in ascolto delle proprie emozioni e sensazioni, cercando di accoglierle, osservarle e, delicatamente, mettervi mano, nel tentativo di integrare i vissuti significativi, e soprattutto quelli dolorosi, all’interno della propria persona, consapevoli della complessità e unicità di ogni individuo.
Il prendersi cura è un processo, e non un risultato, che nasce e avviene all’interno della relazione terapeutica, che si fa motore di osservazione, consapevolezza e cambiamento, finalizzati a uno stato di migliore benessere psichico e a un vivere e agire nel mondo in modo maggiormente cosciente: si riescono a conoscere e riconoscere i punti di forza e le sensibilità, che diventano, così, la cornice all’interno della quale dipingere il quadro della propria esistenza.
E proprio grazie a questo atto di amore nei nostri confronti che possiamo scegliere di accarezzarci e guardarci fiorire.
Uscire dal silenzio
Nuova opera di FRA(m)MENTI DI EOS, la rubrica della Dr.ssa Susanna Toppino psicologa del Centro EOS.
Leggiamo cosa ne pensano una psicologa e un papà.
“Solo chi ha pianto molto può apprezzare la vita nelle sue bellezze, e ridere bene. Piangere è facile, ridere è difficile”. (Oriana Fallaci – Lettera a un bambino mai nato)
Il lutto perinatale è un fenomeno sfaccettato e complesso, di cui si parla poco: spesso viene negato culturalmente e minimizzato all’interno della società; ciò comporta la non legittimazione di un dolore travolgente e pervasivo.
Essendo una perdita, presenta tutti i drammatici aspetti del lutto, con la particolare differenza che si tratta di una perdita biologicamente inaspettata e perciò inspiegabile.
I vissuti associati sono dei forti sensi di colpa, di fallimento e di inadeguatezza.
La madre vive un intenso senso di vuoto per aver perso una parte di sé. Infatti, la gravidanza costituisce per i genitori un periodo di importanti cambiamenti fisici e psichici: la donna adatta il proprio corpo ad un bimbo che viene accolto, dal primo istante, nei pensieri e nelle fantasie di mamma e papà.
È facile immaginare quanto la consapevolezza della cessazione della gravidanza sconvolga le convinzioni, l’immagine di sé e le relazioni affettive, lasciando la sensazione che la vita abbia perso il suo senso.
Può essere molto complicato attivare le risorse necessarie ad un’elaborazione del lutto, che vede l’alternarsi di diverse fasi specifiche. Si passa da un’emozione di shock ad una accesa rabbia per l’ingiustizia subita, per poi attraversare un sentimento di vera e propria disperazione e chiusura in sé stessi. Il percorso attraverso queste sensazioni è un processo funzionale ad una accettazione e ridefinizione di sé e della situazione. L’obiettivo per i genitori può essere quello di ricostruire una nuova narrativa familiare, accogliendo il dolore ed integrando la perdita del figlio nella dimensione del passato.
È fondamentale darsi il tempo necessario e considerare la possibilità di intraprendere un percorso di sostegno psicologico, che permetta ai genitori di sperimentare una relazione di alleanza con professionisti competenti, sensibili e capaci di fornire loro uno spazio di ascolto e di legittimazione dei loro stati d’animo.
Contributo redatto dalla Dr.ssa Noemi Mangiarotti psicologa del Centro EOS.
Commento all’immagine di un padre di un bambino mai nato
Guardando l’immagine, avverto ancora la sofferenza e il turbamento che ho provato quando abbiamo dovuto interrompere volontariamente la gravidanza a causa di un problema cromosomico riscontrato nel feto.
Qualche tempo fa, io e mia moglie abbiamo deciso di avere un figlio. Sarebbe stato il nostro secondo figlio e l’idea ci rendeva molto entusiasti, ma anche un po’ ansiosi. Da una parte, sapevamo già cosa aspettarci, visto che sarebbe stata la nostra seconda gravidanza, ma dall’altra, avere due figli significa impegnarsi e concentrarsi ancora di più.
I primi tre mesi sono stati difficili perché i sintomi della gravidanza si sono fatti sentire in maniera molto intensa. Quasi al termine del primo trimestre, abbiamo fatto un test del DNA fetale per assicurarci che non ci fossero patologie. Era l’ultimo passaggio da fare prima di annunciare che nella nostra famiglia ci sarebbe stato un nuovo membro. Il risultato è stato uno shock: una sindrome non compatibile con la vita.
Il nostro bambino, che abbiamo scoperto essere una bambina, stava crescendo e tutto sembrava sotto controllo, ma non c’erano speranze di sopravvivenza. Se non avessimo interrotto la gravidanza, ci sarebbero state molte probabilità che il feto sarebbe nato morto o che non sarebbe sopravvissuto al parto, mettendo in pericolo anche la vita di mia moglie.
Abbiamo vissuto dei giorni dolorosi perché, oltre al problema della malattia, c’era anche la preoccupazione di evitare un parto abortivo, con complicazioni psicologiche enormi. Più passavano i giorni, più avevamo la consapevolezza che la nostra bambina non sarebbe mai nata, ma al tempo stesso era ancora con noi. Inoltre, per poter confermare il test del DNA fetale, mia moglie ha dovuto fare una villocentesi, un esame invasivo e pittosto doloroso.
Siamo andati in ospedale, dove ho dovuto aspettare in sala d’attesa e lasciare mia moglie ad affrontare questo dramma da sola. L’area in cui mia moglie è stata visitata e poi operata era adiacente all’area dei monitoraggi, con donne all’ultima fase della loro gravidanza. Ogni volta che passavamo da quel reparto pieno di vita, ci si stringeva il cuore e ci sembrava un vero supplizio.
Quando finalmente tutto era finito, ci sentivamo svuotati, impotenti, stanchi. Mia moglie non era più incinta, ma aveva ancora tutti i sintomi e i segni della gravidanza. Continuavamo a pensare che c’erano più possibilità di avere una bambina sana che averne una con una malattia cromosomica. Pensavamo che fosse colpa nostra, che avevamo aspettato troppo per provare ad avere un secondo figlio, che avremmo potuto fare diversamente. Ma poi abbiamo capito che in questi casi entra in gioco anche la fortuna o, come nel nostro caso, la sfortuna.
Tuttavia, questa infelice vicenda ci ha avvicinati ancora di più, perché nella sofferenza abbiamo trovato la forza per proseguire e per farci coraggio a vicenda.
Maneggiare con cura
Spesso nelle stanze di terapia emerge il concetto e il vissuto di debolezza, da parte dei pazienti, nell’affidarsi allo psicologo per intraprendere un percorso terapeutico.
In realtà, ci è utile osservare che il senso intrinseco del prendersi cura di sé nasce e origina dall’idea di fragilità, quindi una qualità che ci rende umani, e non deboli e incapaci.
Proprio questa sensazione di debolezza è un nodo importante all’interno della terapia, perché spesso associata a un vissuto di sconfitta a fronte di un’immagine sociale di forza, che è, tuttavia, illusoria e inesistente. Infatti, attraverso il dialogo con il terapeuta, potremo scoprire che la maggior forza che possiamo trovare nella nostra vita parte proprio dall’aprirsi all’idea di prendersi cura di sé e dal considerare la fragilità come il nostro lato più umano e, in quanto tale, il lato più capace di relazioni sociali, intimità ed empatia; qualità relazionali che consentono di sentirci solidi interiormente.
Attraverso questa nuova visione del concetto di fragilità, potremo accoglierci e sperimentarci in una relazione di cura che ci consentirà di lavorare senza giudizio sulle nostre crepe interiori, rafforzandoci.
Il risveglio della disconnessione
«Non esiste trasformazione senza fatica. Sappiamo di dover bruciare fino in fondo, e poi sederci sulle ceneri di colei che un tempo pensavamo di essere e ricominciare da lì».
Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi
Sogniamo continuamente di poterci fermare e assaporare il gusto della lentezza, ma non ci siamo più abituati. È più facile bramarla che viverla, perché “lentezza” vuol dire spegnere i motori di tutte le macchine che scandiscono la nostra routine e che con il loro rumore offuscano la nostra voce interiore, relegandola al “momento ideale” in cui avremo tempo di ascoltarla. Ma quel momento non arriva quasi mai, perché c’è sempre qualcosa di più urgente da risolvere, di più importante da (in)seguire. Come se dedicare il tempo per ascoltarci, per raccogliere i pezzi andati in frantumo lungo la strada e riappropriarsi delle energie disperse fosse tempo in qualche modo sprecato o rimandabile all’infinito. Eppure, sappiamo bene che esiste un tempo per tutto, come per seminare, anche per fermarsi, anche se non siamo così bravi a farlo, perché è più facile sopportare il brusio indistinto intorno a noi che la voce del silenzio dentro di noi, dove tutto ha un’eco distinta e rarefatta.
Come spesso accade, nel mondo animale abbiamo un grande esempio: il letargo, scientificamente definito «una risposta dell’animale a condizioni “ostili”». Quando gli animali vanno in letargo rallentano le loro funzioni vitali, vedono il loro corpo raffreddarsi, i battiti del cuore si fanno più lenti e perdono la necessità di nutrirsi, per poi cadere in un sonno più o meno profondo.
Certo, non ci sarebbe possibile, biologicamente e socialmente, prenderci le stesse libertà per un periodo di tempo troppo esteso, ma ogni essere vivente dovrebbe concedersi il diritto morale di viversi il proprio letargo, anche approfittando di festività o pause estive o, perché no, parentesi temporali che scegliamo di ritagliarci durante l’anno.
La società si aspetta costantemente da noi l’essere proattivi e iperproduttivi, intervallando qualche “spot” sull’importanza della gentilezza e dell’inclusione, ma per dare stabilità alla nostra efficienza e concretezza all’idea, per ora ancora fragile, di inclusione, l’unica via percorribile, paradossalmente, è un senso unico: fermarsi e riappropriarsi delle energie perdute. A qualunque punto della nostra vita siamo arrivati, qualunque sia il nostro bagaglio, il tempo del proprio letargo apre silenziosamente la strada al nostro risveglio, anche se non siamo ancora in grado di vederla, anche se siamo costretti a vagare nell’oscurità. Ciò che conta è tenere con noi una riserva sufficiente di speranza e di fiducia in noi stessi e in ciò che può fiorire dentro di noi, perché come scrisse Tolkien, “non tutti quelli che vagano sono perduti” e perché anche se il nostro cuore batte più lentamente, non dobbiamo dimenticare che ogni rintocco scandisce il suono del nostro nuovo inizio.
Scritto da Denise Sarrecchia
L’ascolto apre nuove porte
« Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi ».
Antoine de Saint-Exupéry “Il piccolo principe”
Siamo ormai immersi in un mondo fatto di oggettività e assenza di reale interiorità dove però spesso in psicologia si parla di “Ascolto attivo”…ma di cosa stiamo parlando sul serio? Il vero ascolto non passa solo attraverso orecchie attente e vigili, bensì da occhi chiusi alle distrazioni e un cuore aperto al proprio e all’altrui mondo interiore.
Ascoltare attivamente vuol dire tante cose ma oggi vorrei soffermarmi sull’importanza del cuore nell’ascolto dell’esperienza della vita. Il cuore non è appannaggio dei bambini e dei soggetti dal senno alterato ma appartiene a ognuno di noi ed è lì che si annidano le esperienze realmente ascoltate!
Nell’antico Egitto si definiva “Psicostasia” la cerimonia cui i defunti erano sottoposti prima del trapasso nell’aldilà. Ma in cosa consisteva questo rituale che ogni defunto, ricco o povero che fosse, doveva sottostare? Nella PESATURA del CUORE. Più il cuore era leggero, più la persona risultava, secondo Osiride, meritevole di un trapasso tenue ed eterno. Un cuore di questo tipo raccontava, infatti, di un soggetto dalle parole e animo puri, diversamente, un cuore pesante era destinato alle fauci della Dea Ammit che ne distruggeva definitivamente lo spirito.
Il cuore, di fatto, è le sede dell’anima…della nostra psiche!
Volgersi a sé e agli altri col cuore vuol dire quindi aprire la propria anima al mondo e quindi ascoltare oltre ogni barriera fisica e razionale.
Commento a cura della Dr.ssa Claudia Jasmin Marelli – Psicologa e Psicoterapeuta del Centro EOS
CASTELLI IN ARIA
« Di cosa soffri? Dell’irreale intatto dentro il reale devastato ».
Renè Char
Fantasticare, o anche sognare ad occhi aperti, è un fenomeno della nostra vita intrapsichica che occupa parte del nostro tempo e che spesso distoglie la nostra attenzione dalle sfide che la vita quotidiana ci mette davanti, lasciandoci la libertà di mettere in gioco le nostre capacità simboliche e creative.
Pensiamo solo all’infanzia e all’importanza della capacità del gioco simbolico per quello che è lo sviluppo cognitivo ed emotivo. Lasciare che i pensieri vaghino può configurarsi come un fenomeno adattivo che permette l’attivazione di uno stato mentale riflessivo e favorisce le attività di pianificazione e progettazione di eventi futuri.
Osservare come la nostra mente sia capace di fantasticare in modo dinamico può renderci più consapevoli dei processi intrapsichici che mettiamo in atto con diversi gradi di consapevolezza e aprirci a nuove possibilità di cambiamento.