Autore(i): Claudia Jasmin Marelli, psicologa Centro Eos Pavia
Secondo le ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si valuta che siano oltre 135 milioni le donne e le ragazze che hanno subito una qualche mutilazione genitale e che almeno 2 milioni di bambine l’anno siano a rischio. Consideriamo il fenomeno dal punto di vista psicologico.
INTRODUZIONE
Secondo le ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si valuta che siano oltre 135 milioni le donne e le ragazze che hanno subito una qualche mutilazione genitale e che almeno 2 milioni di bambine l’anno siano a rischio.
Dagli ultimi dati dell’Unicef si stima che tra i 100 e i 140 milioni di donne e ragazze abbiano subito mutilazioni genitali femminili e che 3 milioni di ragazze rischino ogni anno di essere sottoposte a questa pratica.(http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4275)
Dalle ultime indagini effettuate sulle donne immigrate in Italia, sono ormai diverse migliaia (50 mila secondo dati Unicef nel 2005) le ragazze che hanno subito l’infibulazione, cioè la mutilazione degli organi genitali femminili.
Si è scoperto che non è più tanto raro per i medici italiani trovarsi di fronte a donne vittime di tali pratiche o addirittura a mamme che le richiedano per le loro figlie e si sospetta che, proprio perché in Italia illegale, l’infibulazione sia praticata fuori dalle strutture ospedaliere spesso in condizioni igienico–sanitarie precarie.
Negli ultimi anni, quindi, la nostra società si è incontrata e spesso anche scontrata con realtà, religioni, valori, usi e costumi precedentemente a noi estranei e che ora grazie e non per colpa dei flussi migratori, sono divenuti argomenti abbastanza consueti all’interno della nostra cultura.
I danneggiamenti che derivano, da tale pratica sugli organi genitali femminili e la compromissione delle relative funzionalità, risultano essere permanenti con gravi conseguenze sulla vita della donna sia fisiche che psico – sociali.
La Dichiarazione dell’Unicef per debellare tali pratiche sottolinea anche che le mutilazioni genitali femminili sono inoltre “una manifestazione di diseguale relazione tra donne e uomini con radici profondamente radicate nelle consuetudini sociali, economiche e politiche”.
La pratica è vista come un modo per esaltare la verginità delle ragazze e aumentarne le possibilità di matrimonio controllando la loro sessualità. Come tale, ciò non solo viola la salute sessuale e riproduttiva delle donne, ma perpetua anche dannose discriminazioni di genere a danno delle donne. (http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4275)
Ma quindi, se sono sempre presenti tutte queste informazioni sulle varie conseguenze, ormai anche nei paesi in cui queste pratiche continuano ad essere messe in atto, come mai le percentuali di bambine e donne mutilate rimane sempre così elevato?
E poi, che ruolo possiamo attribuire alla cultura?
E se la cultura avesse degli effetti sulla percezione traumatica e la necessità di portare avanti di queste pratiche?
In questo nuovo contesto culturale risulta, quindi, fondamentale una preparazione multietnica, in quanto, coloro che si occupano di salute non possono permettersi di ignorare le emozioni, le tradizioni e le esperienze dell’“altro”.
Dato questo presupposto, ci si dovrebbe chiedere se è realmente possibile per lo psicologo comprendere, lavorare e relazionarsi con soggetti che provengono da società che perpetuano determinate pratiche come le MGF, senza che il proprio giudizio risulti etnocentrico.
Gli operatori, seppur preparato, può realmente avere un punto di vista oggettivo e critico rispetto a certe usanze?
STORIA DELLE MGF
Dal punto di vista storico, la pratica della mutilazione genitale ha origini molto remote, ma non esistono spiegazioni precise circa la sua comparsa, infatti, i dati sono pochi e disorganici, e gli accenni in autori greci e latini sembrano testimoniare solo dell’esistenza piuttosto antica di notizie che non sono in grado di fornire elementi di contenuto in relazione alle pratiche stesse.
Secondo alcuni studiosi, essa è nata in Egitto e poi si è diffusa in altri paesi; secondo altri, è nata contemporaneamente in molti paesi.
Sulla base di dati documentari certi, è probabile che la circoncisione femminile sia presente, insieme a quella maschile, in alcuni rilievi delle tombe egizie della VI dinastia (intorno al 2340 a.C.).
La più antica fonte conosciuta, che registra la pratica della circoncisione, è di Erodoto, vissuto nel V secolo a.C.
Egli affermava che l’escissione era praticata dai Fenici, dagli Hittiti, dagli Etiopi e anche dagli Egiziani.
Anche Strabone, Aetius e Soramus sostenevevano che, sia a Roma che ad Atene, la pratica fosse frequente ed avesse lo scopo di far diminuire il desiderio sessuale femminile.
Negli anni ‘80, alcuni archeologi asserirono che le buone condizioni di conservazione delle mummie egiziane testimoniavano l’usanza della clitoridectomia, cioè dell’escissione della clitoride femminile.
Questi ritrovamenti potrebbero, quindi, confermare che si tratta di una pratica antecedente all’Islam e di conseguenza giustificare perché in paesi islamici, come la Repubblica Islamica dell’Iran, questa pratica sia assolutamente sconosciuta.
È necessario sottolineare che l’infibulazione viene condivisa da donne islamiche, cristiane e animiste, soprattutto nel Corno d’Africa ed in Africa Centrale.
L’infibulazione è, infatti, legata a culture tribali precedenti l’islamizzazione dell’Africa e dei paesi arabi.
Per esempio, in Australia, ossia agli antipodi della penisola arabica o dei Corno d’Africa, si registrava un tale fenomeno senza che ci fosse alcuna contaminazione islamica.
Addirittura, nelle tribù aborigene si praticava l’introcisione, cioè l’ingrandimento dell’apertura vaginale per lo strappo o per il taglio del perineo, una pratica ancora più devastante dell’infibulazione e dell’escissione.
Il termine “infibulazione” però richiama qualcosa che non ha nulla a che vedere né con l’Egitto né con il Sudan infatti, la fibula, era una spilla che veniva usata dai Romani per evitare che le mogli avessero rapporti sessuali con sconosciuti mentre erano in guerra; soprattutto i Romani infibulavano le schiave e gli schiavi per evitare che potessero avere rapporti sessuali perché, com’è noto, la gravidanza è un elemento che riduce, anche se temporaneamente, l’attività lavorativa delle donne: meno le schiave erano gravide, più potevano lavorare; il termine “infibulazione” è pertanto un termine latino ed europeo.
COSA SONO LE MGF?
Il primo termine utilizzato per definire tali pratiche fu “circoncisione femminile” perché tale attribuzione nominale induceva a pensare alla circoncisione del prepuzio maschile; in seguito invece il termine proposto fu quello di “mutilazione”.
Queste due modalità di designare tale rituale crearono però enormi dissidi tra donne africane e occidentali durante la Conferenza Mondiale delle Donne di Copenhagen (1980), le prime infatti supportavano il termine circoncisione, proprio per esaltare la ritualità sottostante, mentre le seconde sostenevano che “mutilazione” fosse la parola più adatta, per sottolinaere il carattere mutilatorio di tale pratica.
Soltanto in seguito si è instaurato un dialogo, venendo a patti tra le varie argomentazioni in nome della cultura, della religione e dei diritti umani delle donne [1].
Al termine di tale disputa comunque si raggiunse un accordo sul termine “mutilazione genitale femminile”, ritenuto da alcuni operatori sanitari il giusto modo di denominare queste quattro categorie di “operazioni”.
Nei paesi in cui le MGF vengono praticate però tale dizione spesso viene criticata e considerata dispregiativa soprattutto per alcuni gruppi, compreso quello delle donne che hanno subito tali interventi, poiché nell’uso del termine è evidente un’implicita condanna o comunque una valutazione negativa di atti che gli stessi soggetti coinvolti percepiscono non come una mancanza, ossia una mutilazione, bensì come eventi positivi della vita dell’individuo, della comunità o tutt’al più passaggi necessari e obbligati nel percorso di crescita della persona.
Le mutilazioni genitali si configurano come vere e proprie marche di identità etnica e personale; l’esperienza delle mutilazione, infatti, si imprime nella memoria del soggetto decretando la sua appartenenza al gruppo sociale [2].
CLASSIFICAZIONE
Nel 1995 il Gruppo Tecnico di Lavoro per le MGF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità procedette alla classificazione definitiva delle MGF.
In seguito alla pubblicazione di Hosken [3], infatti, vi fu un graduale interessamento per l’argomento da parte di Organizzazioni internazionali e la definitiva condanna mondiale di tali pratiche.
Attualmente l’OMS propone tale differenziazione:
- Tipo I o circoncisione: consiste nel taglio del prepuzio (o cappuccio del clitoride); nota con il termine sunna (tradizione) nei paesi musulmani, è la meno dannosa tra tutte le pratiche tradizionali
- Tipo II o escissione o clitoridectomia: consiste nella rimozione del clitoride e, in toto o in parte delle piccole labbra. L’asportazione del clitoride e, in toto delle piccole labbra è effettuata su circa l’80 % delle ragazze e delle donne che subiscono le mutilazioni genitali. I rischi di emorragie mortali sono alti.
- Tipo III o infibulazione o circoncisione faraonica: consiste nella rimozione del clitoride, delle piccole labbra e di gran parte (almeno 2/3 anteriori e la parte più interna) delle grandi labbra, con successiva sutura dei lembi rimanenti della vulva con fili di seta o spine di acacia, con l’occlusione pressoché completa dell’introito vaginale, per lasciare solamente una piccola apertura per il passaggio dell’urina o del sangue mestruale. È la forma più aggressiva e mutilante e risulta essere la più utilizzata in Somalia.
- Tipo IV o non classificabile: includono l’incisione, il pearcing del clitoride e/o delle grandi labbra, lo stiramento del clitoride e/o delle grandi labbra, l’abrasione dei tessuti circostanti l’orifizio vaginale (anguria cuts) o l’incisione della vagina (gishiri cuts). Questi interventi spesso provocano danni allo sfintere anale e fistole vescica-vaginali. L’introduzione di sostanze corrosive o di erbe nella vagina è causa di emorragie o del restringimento della vagina.
E’ inoltre importante ricordare altre due pratiche connesse all’infibulazione: la deinfibulazione, ossia la procedura attuata per accrescere l’apertura dell’orifizio lasciato al momento dell’infibulazione, e la reinfibulazione, cioè la procedura attraverso la quale le labbra vengono ricucite insieme dopo il parto.
MODALITÀ E DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA
Il tipo di mutilazione e l’età delle vittime dipendono da molti fattori tra cui il gruppo etnico di appartenenza, il paese, la zona (rurale o urbana) in cui le ragazze vivono e lo status socio – economico della famiglia.
Gli interventi, negli ambienti rurali, vengono eseguiti con lame, corpi taglienti, forbici, pezzi di vetro, lamette, coperchi di lattine, rasoi e gli strumenti possono essere riutilizzati.
La pratica può essere eseguita a casa delle ragazze, dei vicini o dei parenti, oppure può essere scelto un luogo simbolico dove effettuarla, come un albero o un fiume particolare, raramente avviene in un centro sanitario.
La persona incaricata di eseguire l’operazione può essere una delle anziane della comunità, la parrucchiera, la levatrice/ostetrica tradizionale, oppure una figura qualificata in campo medico è [4].
Nella maggior parte dei casi l’anestesia non viene praticata.
Anestetici o antisettici, in particolare per quanto riguarda la campagna, non sono conosciuti o reperibili e sono sostituiti con medicamenti tradizionali.
Durante il processo di guarigione, generalmente attorno ai 40 giorni immobilizzata a letto, viene inserita nella vagina una scheggia di legno per poter permettere il passaggio dell’urina e del sangue mestruale.
A seconda dei diversi costumi, la ferita viene cucita con il filo di seta o con delle spine di acacia.
Le implicazioni immediate sono più ridotte in ambito urbano, dove le bambine e le ragazze godono di una maggiore protezione sanitaria.
Possibili aggravi, in questi casi, possono essere: l’incisione più profonda e le saturazioni troppo strette, dato che le bambine sono in anestesia totale.
L’età in cui le MGF vengono eseguite varia ampiamente a seconda del gruppo etnico e in base alla posizione geografica; vi sono alcuni gruppi che le praticano sulle bambine neonate (7 giorni dopo la nascita) come avviene per esempio in Etiopia e in particolare nel gruppo ebreo dei falas, in Mali, nel nord e sud – ovest della Nigeria; altri su bambine di 5 e 6 anni; altri ancora sulle adolescenti.
In Burkina Faso ad esempio viene praticata sulle bambine da 0 a 7 anni, in Casamance (sud del Senegal) tra i 3 e i 6 anni, in Mauritania fra i 5 e i 9 anni, in Somalia e in Egitto dai 3 agli 8 anni, in Sudan tra i 5 e gli 8 anni.
In alcuni casi viene praticata dopo il matrimonio (tra i masai per esempio) o addirittura durante i primi mesi di gravidanza.
Questi dati permettono di capire che tale pratica ha perso in alcune situazioni il valore di rito di iniziazione all’età adulta perché troppo spesso viene praticata su soggetti troppo piccoli.
L’evento è spesso accompagnato da feste e doni per la ragazza; anche per questo motivo sono esortate ad essere coraggiose di fronte al dolore fisico.
Quando le MGF sono parte di un rito di iniziazione, le festività possono rappresentare il più grande evento della comunità intera, anche se, però, frequentemente solo le donne possono parteciparvi.
Il fattore del rifiuto, in un contesto migratorio come in quello tradizionale, oggi si connette soprattutto al processo di scolarizzazione e al conseguente scardinamento del sistema tradizionale delle classi di età, sistema che di fatto accomunava gran parte delle cerimonie collettive delle ragazze sottoposte all’escissione [5].
Oltre alla trasformazione dei sistemi simbolici tradizionalmente acquisiti dal gruppo di appartenenza, infatti, vi è la possibilità di una nuova gestione del proprio corpo in funzione di un reale processo di emancipazione raggiunto mediante i recenti modelli culturali delle società in cui si trovano a vivere.
Le loro nonne e le loro madri consideravano questo un momento importante, e lo sopportavano nel migliore dei modi perché fondamento di un’accettazione sociale.
Oggi al contrario, soprattutto in contesti migratori per le ragazze sottoposte a tale operazione, le MGF rappresenta un elemento di separazione culturale con le coetanee di diversa appartenenza, in quanto emblema di una cultura alla quale sentono di non appartenere a tal punto da perpetuare una ritualità che in occidente viene ritenuta troppo crudele.
Per quanto concerne la distribuzione geografica invece non esistono indagini complete e dati esaustivi circa l’incidenza e la prevalenza nel mondo delle mutilazioni genitali femminili, anche se, secondo i dati di Amnesty International sono circa 40 le nazioni che mettono in pratica le MGF, senza parlare di quelle in cui il fenomeno si verifica in seguito ai flussi migratori, e la maggior concentrazione si ritrova in:
Africa (zona orientale: Egitto, Sudan Settentrionale, Somalia, Djibouti, Kenya, Etiopia, Eritrea, Tanzania; zona occidentale: Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Guinea, Guinea Bissau, Togo, Benin, Ciad, Gambia, Mauritania, Ghana, Liberia, Senegal; zona centrale: R.D.Congo-Zaire );
Penisola Arabica (Yemen, Oman, United Arab Emirates);
Asia (Indonesia, India, Pakistan, Malaysia);
Sud America (Colombia, Perù, Brasile, Mexico).
MOTIVAZIONI
I motivi che portano a mettere in atto le mutilazioni sessuali possono suddividersi in cinque categorie:
Identità culturale: la mutilazione sancisce l’appartenenza sociale e la pratica viene conservata per proteggere l’identità culturale del gruppo; insieme alle caratteristiche fisiche e comportamentali degli individui, le MGF definiscono chi fa parte del gruppo e chi no.
Identità sessuale: le MGF vengono ritenute necessarie perché una ragazza sia considerata una donna completa. Il clitoride, in quanto anatomicamente considerato la parte “maschile” del corpo delle ragazze, deve essere rimosso insieme alle piccole labbra per esaltarne la femminilità.
Controllo della sessualità: in molte società che praticano le MGF, un’importante giustificazione che le pone in essere è la credenza che riducano il desiderio sessuale delle donne, diminuendo perciò la possibilità di relazioni sessuali extra – coniugali.
Non si ritiene possibile che una donna non mutilata possa essere fedele al marito per propria scelta.
Credenza sull’igiene, estetica e salute: le ragioni igieniche portano a ritenere che i genitali femminili esterni siano “sporchi” e “impuri” e vi è la credenza che il clitoride emani un odore sgradevole.
Religione: le MGF, pur essendo antecedenti all’Islam e non essendo praticate dalla maggioranza dei musulmani, hanno comunque assunto carattere religioso nel seno di alcune comunità islamiche.
Nei luoghi in cui esse sono praticate dai musulmani, la religione viene utilizzata come giustificazione.
Motivazione economica: in primo luogo, le persone che praticano tali operazioni percepiscono somme di denaro ogni volta che fanno interventi di clitoridectomia o infibulazione su bambine, per reinfibulare le donne dopo il parto, o deinfibulare per la preparazione delle spose prima del matrimonio e del primo rapporto sessuale. Le famiglie, inoltre, che hanno delle figlie mutilate hanno la quasi totale garanzia di un matrimonio e quindi di una dote economica.
CONSEGUENZE
Conseguenze fisiche a breve termine: dolore-incontinenza-emorragia-shock-ritenzione urinaria-fratture, slogature e dislocazioni-infezioni e tetano.
Conseguenze fisiche a lungo termine: cicatrice clitoridea secondaria-ascessi-cisti dermoidi e ascessi vulvari-neurinoma-mancata cicatrizzazione-infezione e calcoli urinari-infezioni pelviche croniche-fistole-HIV-gravidanza e parto.
Conseguenze psicologiche:
disturbi dell’alimentazione
disturbi del sonno
disturbi dell’umore
disturbi nella percezione di sé
senso di incompletezza
Ma è possibile parlare di conseguenze psicologiche solo strettamente connesse alle MGF oppure no?
Questa domanda nasce spontanea dal momento in cui sono presenti altre variabili di enorme importanza, come ad esempio il fatto di prendere in considerazione soggetti che, in varia maniera, hanno affrontato percorsi migratori più o meno traumatici, magari da paesi in cui sono presenti conflitti etnici e/o in cui hanno subito perdite importanti nel nucleo familiare.
Non di rado infatti vengono prese in considerazione la conseguenze di alcune pratiche su soggetti che si trovano in contesti migratori senza prendere atto del fatto che già questa condizione di per sé può alterare la percezione di questi rituali.
Inoltre, l’incontro/scontro con soggetti che valutano queste pratiche come delle barbarie porta con sé un giudizio più o meno latente che induce l’individuo direttamente coinvolto a rivalutare alcuni, se non tutti, gli aspetti tradizionali sottostanti alla propria cultura di appartenenza.
Questa modalità permette al soggetto migrante di sentire più vicina la cultura del paese ospitante, senza interporre barriere culturali che spesso potrebbero risultare non comprese e quindi denunciate, a volte in maniera etnocentrica.
Favaro e Tognetti Bordogna [6], sono tra le poche che hanno analizzato il fenomeno migratorio al femminile e commentano così questa situazione: “Le donne immigrate, indipendentemente dalla loro disponibilità e dalla loro ricerca di cambiamento, non vivono solo tra due culture, ma sono costrette a fronteggiare ed elaborare i vincoli e le restrizioni a cui sono sottoposte nei paesi d’origine e a sviluppare delle modalità di comportamento nuove, che non sono né quelle del paese d’origine, né quelle del paese di accoglimento”.
L’idea infatti che questi riti d’iniziazione non abbiano alcuna valenza, se non quella di sottomettere le donne che le subiscono, pone tutti coloro che si occupano dei vari diritti dell’uomo e della donna in una posizione di condanna necessaria a debellare le MGF.
Di sovente, però, quando sono state messe in atto delle politiche di annientamento di questi riti, la popolazione ha reagito in maniera autoconservativa, attaccando cioé tutti coloro che intendessero entrare in dispute non di loro competenza, e la cosa emersa in maniera più emblematica riguardava il fatto che fossero proprio le donne ad opporsi in modo più rigido a queste intrusioni.
A dimostrazione di quanto detto finora citerò le conseguenze psicologiche che si manifestano nelle donne che non hanno subito alcuna mutilazione.
Nelle società che praticano le MGF spesso vi è l’idea che una ragazza non possa essere considerata adulta senza mutilazione e di conseguenza non possa sposarsi con uno degli uomini della comunità.
Dalle interviste effettuate a donne somale di diverse etnie, inoltre, ho potuto riscontrare che, anche tra le bambine e le ragazze questo tipo di atteggiamento escludente era e forse è tuttora molto presente.
Da alcune testimonianze raccolte, ho potuto appurare che spesso in Somalia, soprattutto in caso di litigi, vi era una tendenza delle giovani a puntare il dito contro coloro che non avevano subito l’operazione indicandole come “impure” e “diverse”.
Tali litigi, di frequente, chiamavano in causa anche le famiglie che si sentivano oltraggiate da tali dicerie.
Esse, quindi, erano tenute a dimostrare la castità delle figlie offese mostrando pubblicamente i segni sul corpo della bambina dovuti all’infibulazione [7].
Tale atteggiamento da parte della società spingeva le ragazze, sin da piccole, a richiedere l’operazione per poter essere come le coetanee o addirittura per andare fiere del loro taglio in quanto adulte e vergini.
Per quanto concerne gli effetti sulla salute psicologica della ragazza, in letteratura vi sono pochissime pubblicazioni di psicopatologia infantile causata dalla “paura della circoncisione”.
Esistono prove che suggeriscono che la percezione dell’incidente da parte della ragazza non è negativa, nonostante il trauma e il dolore; nei racconti di molte donne, il desiderio del cerimoniale per la bambina, con i suoi risvolti di accettazione sociale in seno alla comunità, l’orgoglio personale e i doni materiali, si sovrappongono spesso alla sofferenza fisica.
L’equilibrio tra gli aspetti negativi e quelli positivi della mutilazione subita, influenzerà la reazione delle ragazze e ne determinerà il ricordo.
CULTURA RITI E TRAUMA
Da un lavoro sulle MGF, effettuato su un campione di donne somale, l’elemento emerso costantemente nelle interviste, è stato il racconto dell’infibulazione come di un evento che ha segnato tutte le donne incontrate in modo irreversibile, malgrado la deinfibulazione avvenuta all’arrivo in Italia.
Nella testimonianza di H., la donna di 70 anni in Italia per un breve periodo, sono inoltre affiorati due argomenti di particolare rilevanza: il parto nelle donne infibulate e le contrapposte fazioni che si sono create sull’argomento delle MGF all’interno della Somalia.
H. ha dichiarato di essere a favore delle MGF, ma nella sua forma più lieve, perché consapevole del fatto che una donna non – cucita non può trovare marito somalo.
Gli uomini somali non vogliono donne che non hanno subito l’operazione, questo è il motivo fondamentale che l’ha spinta a sostenere tale pratica.
La sua contrarietà all’infibulazione faraonica, invece, è dovuta soprattutto alle devastanti conseguenze che la donna avrebbe in seguito il parto; ha infatti descritto accuratamente come tale modalità obblighi a un nuovo taglio, chiamato episiotomia, oltre che alla riapertura di quello precedentemente effettuato.
H. ha inoltre sottolineato che, dato l’elevato numero medio di figli per famiglia in Somalia, questa serie di tagli e successive ricuciture devono essere effettuati svariate volte e le conseguenze sulle donne, a breve e a lungo termine, sono numerose.
H. ha inoltre descritto la difficile situazione somala rispetto a questo argomento.
La maggior parte della popolazione si dichiara favorevole all’infibulazione, anche nella sua forma più deturpante, e solo una piccola minoranza sta tentando di divulgare informazioni utili all’abolizione delle MGF, ma senza grossi risultati.
La testimonianza di H è stata l’unica a favore di questa pratica mentre le altre sono state tutte di stampo accusatorio.
H però risulta essere anche l’unica donna a vivere ancora in Somalia, a differenza delle altre che sono emigrate e da anni vivono in diverse città italiane.
Questa intervista è stata infatti menzionata proprio perché presenta un’opinione divergente rispetto alle altre pertanto ci conduce ad alcune riflessioni che rendono questo problema una diatriba sempre aperta.
La valutazione della traumaticità degli avvenimenti, infatti, dovrebbe essere necessariamente esaminata sulla base degli aspetti storico-culturali dei paesi in questione.
Una considerazione del genere non deve però essere ritenuta un alibi per non effettuare alcuna valutazione personale in merito, e tanto meno non si dovrebbe ritenere questo atteggiamento una difesa relativista di fronte alla complessità di una questione sempre aperta.
L’apertura verso l’ “altro” necessità obbligatoriamente una comprensione a 360° delle questioni in esame senza che tutto questo porti ad utilizzare i nostri modelli occidentali come punto di riferimento universale per ogni gruppo culturale, cadendo così nel cliché dell’etnocentrismo.
“Un intervento che segua un evento traumatico, che coinvolga una o centinaia di persone, non può prescindere da alcune considerazioni sul ruolo che il sistema socioculturale svolge nella gestione dell’avvenimento stesso. Queste considerazioni possono partire da almeno tre punti di osservazione differenti a seconda che la nostra attenzione si posi sugli effetti intrapsichici del trauma, sulla relazione fra soggetto e mondo, o sul sistema socioculturale nel quale l’evento si manifesta”.(Marino 2009)
La storia dimostra infatti che ogni gruppo culturale, anche quelli considerati più evoluti, ha dei retroscena molto comuni a quelli che spesso ora vengono considerati dei rituali “primitivi” o “arcaici”.
Questa osservazione vale anche per quei riti d’iniziazione che, se considerati alla luce del contesto culturale in cui si verificano, hanno una valenza conoscitiva maggiore che permette loro di essere considerati elementi necessari che donano un valore aggiunto ad alcuni soggetti della comunità d’appartenenza.
Tobie Nathan definisce infine le pratiche mutilatorie femminili e maschili dei chiari esempi di traumatismi culturalmente organizzati.
CONSIDERAZIONI FINALI
L’etnopsichiatria, come tutti gli operatori coinvolti nelle relazioni d’aiuto, si trova di fronte, quindi, a concetti e valori che proprio, per la loro valenza specifica e culturale, non sono facilmente comprensibili e interpretabili.
L’integrità del corpo, ad esempio, non costituisce un principio universale, quindi appellarvisi in nome di un prototipo occidentale, non consente di compiere un reale passo avanti.
Il diritto individuale, in molte società, può assumere connotazione gruppale, pertanto quelli che sono i bisogni e i desideri di un soggetto, possono essere costantemente messi in discussione e negoziati dalla comunità.
Gli universalisti, comunque, considerano il relativismo culturale ed il rispetto per le diverse tradizioni una maschera dietro cui è celata una grande inerzia; i relativisti, invece, lamentano l’atteggiamento di continua condanna tipico degli universalisti, poiché impedisce di osservare la sfaccettata complessità di quelli che sono definiti “altri”.
Spesso, proprio chi ha avuto l’opportunità di lavorare sul campo, comunque tenta di andare al di là del falso dibattito “pro” e “contro”, per la poca utilità di tali posizioni.
Gli operatori, quindi, che si trovano a lavorare in una condizione di frontiera dovrebbero evitare il giudizio o la neutralità nelle quali rischiano di inciampare quando incontrano queste tematiche, ma utilizzare un atteggiamento di curiosità intellettuale che permetta loro di accogliere senza denigrare.
Le rappresentazioni del corpo e della sessualità, le logiche di appartenenza al gruppo e tutte le altre motivazioni alla base delle MGF non devono, in quanto radicate in tali presupposti, essere considerate immutevoli; le tradizioni, proprio perché tramandate e tradotte, possono essere sottoposte a cambiamento.
Secondo Benoist [8], ciò ci consente di rammentare che la cultura non deve ingannarci alla stregua di un trompe l’oeil che impedisca di riconoscere la presenza di altri problemi e conflitti o di percepire i cambiamenti già in corso.
Note
[1] F. Sow, Mutilations génitales féminines et droit humains en Afrique, Afrique Développement, vol.XXIII, nn.3– 4, 1998.
[2] V. Berlincioni,, Gestione culturale dell’identità: le mutilazioni genitali, Gli argonauti n.83, 2000, pp. 369–379.
[3] F. P. Hosken, giornalista femminista, nata a Vienna, si trasferisce negli Stati Uniti a partire dal 1938. Nel corso di un sua viaggio in Kenya, all’inizio degli anni Settanta, rimane colpita dalla diffusione delle pratiche rescissorie. Dopo aver visitato una quindicina di paesi, decide di dedicare la propria vita alla lotta contro queste operazioni e a tale scopo pubblica The Hosken Report, considerato ancora oggi una monografia di riferimento sulla questione comprensiva dei primi dati epidemiologici oltre che di notizie sulla storia e sui vari aspetti degli interventi. In realtà il libro non è poi documentato, quanto meno da un punto di vista storico-antropologico, e soprattutto non risulta chiara la metodologia della ricerca, mentre l’impianto polemico e la finalità di denuncia in qualche modo prevalgono su una più approfondita disamina del fenomeno. Sicuramente il merito della Hosken sta nell’aver fatto conoscere al grande pubblico, e all’interno del dibattito del femminismo internazionale, il problema delle conseguenze sulla salute delle donne e delle bambine coinvolte, contribuendo alla classificazione delle stesse con i suoi interventi all’OMS. Per approndimenti sulla questione si veda F. P. Hosken, Les mutilations féminines, Denoel/Gonthier, Paris, 1982 (ed. or. The Hosken Report: Genital and Sexual Mutilations of females, Womens International Network News (WIN News), Lexington, 1977.
[4] L’operatrice, infatti, essendo di solito sprovvista di conoscenze mediche, utilizza tecniche apprese in ambito familiare.
[5] M. Fusaschi, I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni genitali femminili, Saggi Bollati Boringhieri, 2003.
[6] M.I. Macioti, E. Pugliese, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Milano, Laterza.
[7] In seguito all’operazione avviene la constatazione dell’esiguità delle dimensioni dell’apertura rimasta che viene effettuata dall’operatrice o dalle donne della famiglia. Questa viene eseguita con un seme (di sesamo, di miglio o di granturco) che, posto sulla cicatrice, deve scivolare sul foro, indicando così che lo stesso è sufficientemente stretto. Se l’apertura dovesse risultare eccessivamente ampia, la bambina verrebbe assoggettata ad una seconda operazione (doppia infibulazione), atta a correggere la prima. La prova eseguita con il seme di mais risulta essere di fondamentale importanza perché, quando le bambine giocano tra loro, spesso sono invitate a dimostrare, aprendo il vestito, che sono delle ragazze pure (in Somalia una bambina impura viene chiamata charmutta, cioè prostituta), mostrando le dimensioni del foro, che se troppo grande è motivo di derisione da parte delle coetanee.
[8] J. Benoist, Une médicine ou des médicines? A propos de la dimension culturelle de la maladie, Nouvelle Revue d’Ethnopsychitrie 30, 1996, pp. 140–160.
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