Autore(i): Dott. Marco Cicotti
Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo – Socio Associazione Psicologi per i Popoli dell’Emilia Romagna
Il viaggio per arrivare a Kabul è a dir poco massacrante, tensioni e aspettative trovano terreno fertile nei due giorni necessari per arrivare a destinazione.
Unica certezza, fra estenuanti attese e controlli, è il dover usufruire nell’ultima tratta della sola compagnia che, per ora, azzarda l’atterraggio su Kabul: la linea nazionale Afgana, la “famosa” Ariana.
A questi tecnici, che provvedono alla manutenzione dei veicoli, sono sfuggiti alcuni particolari, certo non indispensabili alla sicurezza di volo, ma necessari per la quiete dei passeggeri e sicuramente per la mia, quali il buon ancoraggio degli sportelli di plastica, che si aprono nelle fasi di partenza e atterraggio e il colore dei sedili, che recuperati quasi certamente da veicoli dismessi, si presentano dai colori sgargianti, ma differenti.
Appena si arriva nelle vicinanze di Kabul però, il panorama offerto dall’oblò dell’Ariana fa dimenticare la nottata insonne i vari check in e il tipo d’aereo al quale si sta affidando la propria vita.
La vista dall’alto è incredibile e indimenticabile, le vette intorno alla città superano i 3000 metri e la nascondono fino all’ultimo nonostante i suoi 1800 metri, all’improvviso la si vede apparire dietro le montagne bianche di neve, immersa nella polvere e caratterizzata dalle tante rovine.
L’anno corrente in Afghanistan, è il 1383, dato curioso non tanto se riferito agli aspetti religiosi, ma quanto se connesso agli usi e costumi e quindi alla cultura di questo popolo.
Nella città di Kabul – dove la tecnologia la fa da padrona – il contrasto fra stili di vita che evocano epoche passate è evidente e palpabile in ogni angolo città, infatti, non è difficile vedere, girando nei quartieri centrali, auto d’ultima generazione che affiancano carretti trainati da cavalli o da asini addobbati con rose dai molti colori e troppo carichi di persone.
Tutto ciò all’interno di un contesto di rovine, lasciato come eredità dagli oltre trent’anni di guerre, tanto da far meritare a Kabul l’appellativo di “città degli scheletri”.
Gli abitanti vivono nei malandati e tristi palazzoni sovietici e nelle case di fango, il centro è prevalentemente diroccato, i palazzi e le case sono segnati dai colpi di kalashnikov oppure sventrati da missili sovietici, americani o delle innumerevoli guerre interne scatenate dalle più di dieci etnie che convivono all’interno di questo bellissimo e duro quanto martoriato e fragile paese.
Appena si esce dalla caotica e affollatissima Kabul sembra di piombare in un passato ancora più lontano; nella periferia della città si possono vedere tende di grandi dimensioni con “parcheggiato” all’esterno uno o più cammelli utilizzati per trasportare cose negli spostamenti, sono i Kuchi, nomadi che vivono di pastostorizia e elemosina.
Nelle catene montuose interne all’Afghanistan invece, dove cime di 4000 metri dai colori rossi, viola, verdi e bianchi si elevano maestose verso il cielo, in mezzo ai campi coltivati che si alternano ai campi minati segnati di rosso, si scorgono case completamente rinchiuse dentro mura di oltre tre metri, con torrette agli angoli, piccole roccaforti, spesso disperse nel nulla.
Queste fatiscenti fortezze come pure i piccoli agglomerati di case, si confondono quasi a sparire in mezzo ai pendii delle montagne, isolate, lontane da ogni possibilità di integrazione nel tessuto sociale, civile e morale e da qualsiasi forma di sviluppo culturale e men che meno tecnologico, mimetizzate nel paesaggio, in quanto costruite di fango e paglia, e sicuramente prive di acqua e di luce.
Le poche persone che si vedono “transitare” in mezzo a questi paesaggi, sono quasi sempre accompagnate dal fido asinello, stracarico di materie prime, le donne poi, avvolte nei loro burka azzurri o bianchi, sembrano fantasmi, che si aggirano fra paesaggi lunari.
Riflettendo a posteriori mi rendo conto che la confusione rispetto agli accadimenti degli oltre due mesi trascorsi in Afghanistan regna ancora nei miei pensieri, i propositi e le aspettative fantasticate prima dell’esperienza quasi mai hanno preso la strada immaginata.
Forse non troveranno mai risposta tante domande nate in un paese difficile e con una cultura molto distante dalla nostra.
Prima di partire per una missione di cooperazione o un semplice viaggio, è mia abitudine pianificare quello che dovrò affrontare e analizzare quali compiti sono chiamato a svolgere, nel caso specifico, cosa portare tra gli “strumenti” professionali.
Ma gli obiettivi che avevo pianificato prima della partenza, giorno dopo giorno si sono dissolti, ed è stato un continuo riadattarsi alle impreviste circostanze, agli stimoli, agli eventi e soprattutto alle persone del luogo, al contatto umano secondo modalità così diverse, insolite e “obsolete”.
Il mio ruolo in Afghanistan doveva essere quello di Consulente.
Seguire e supervisionare il personale locale impiegato nella logistica della casa, sede locale dell’Organizzazione, offrire un supporto nella qualità di Consulente Psicologo ai Progetti Sociali che la stessa stava sviluppando, erano gli incarichi-obiettivi a me comunicati prima della partenza dall’O.N.G..
Riorganizzare e coordinare il personale locale che lavora per l’O.N.G. e, se possibile, in accordo con il Country Co-ordinator, trovare il modo più funzionale possibile, per utilizzare le risorse umane, quindi, era il primo incarico.
Il Country Co-ordinator, è la figura che per le Organizzazioni Non Governative, tiene i rapporti con i Donors (coloro che finanziano il progetto), o cerca nuovi Finanziatori-Donors per altri progetti, se l’Organizzazione intende implementare il lavoro su quel territorio.
L’altro incarico, da seguire assieme a una pedagogista, riguardava un Progetto sociale finanziato dall’UNICEF il cui obiettivo e finalità consisteva nel miglioramento delle condizioni di vita di bambini e adolescenti, che vivono all’interno di un Centro di Recupero per ragazzi colpevoli di un reato.
Questo progetto era chiamato “Giustizia Giovanile”.
E’ importante evidenziare che attualmente la legge Afgana è fondata sui principi della Sharia, ossia la legge interpretata dal Corano, e prevede l’imputabilità dal settimo anno di età.
I compiti di noi esperti dovevano essere rivolti innanzi tutto alla sensibilizzazione degli operatori interni al Centro attraverso una supervisione costante per favorire il riavvicinamento delle famiglie d’origine ai ragazzi ed infine avviare attività scolastiche e ricreative.
Da ultimo era stata richiesta la mia Consulenza, su un progetto che vedeva coinvolti i due orfanotrofi di Kabul, all’interno dei quali risiedono, prevalentemente per motivi economici delle famiglie, circa 1450 ragazzi.
L’obiettivo in questo caso era un tentativo di riavvicinamento di alcune famiglie ai figli, il tutto il finanziato dalla Cooperazione Italiana.
In realtà una volta arrivato a Kabul, la situazione che mi si è presentata dal punto di vista lavorativo era del tutto diversa da come mi era stata illustrata e da come l’avevo programmata e immaginata, ma soprattutto il mio ruolo non era così definito e specifico.
Il lavoro che sta alle spalle di un progetto di questo tipo, si articola in colloqui con i direttori degli orfanotrofi, con il personale che lavora all’interno degli orfanotrofi e con i ragazzi e le famiglie.
Vanno selezionate ONG locali alle quali far attivare i vari corsi, vanno valutati quali possibili supporti economici erogare alle famiglie (micro-crediti), cercando di non offrire direttamente danaro, ma provvedendo, attraverso contributi per l’affitto, oppure finanziando piccole ristrutturazioni delle abitazioni.
Le condizioni di partenza possono cambiare “in corso d’opera” e di conseguenza parti del progetto e relativi budget, devono essere nuovamente assegnati per essere utilizzati in attività più idonee al mutato contesto.
Scopo principale di un progetto, a mio parere, è quello di formare il personale locale, attraverso informazione e supervisione, in misura tale da potersi auspicare – al momento della partenza degli esperti internazionali – un proseguimento autonomo delle attività iniziate con i progetti.
La mia attenzione inizialmente si era focalizzata prevalentemente sul programma di riunificazione familiare, in quanto la responsabile del progetto Giustizia Giovanile, la pedagogista sarebbe arrivata dopo 20 giorni.
La prima settimana ho lavorato affiancato ad una persona con due mesi di esperienza sul territorio impegnata al progetto degli orfanotrofi.
Questo mi è stato utile sia per capire alcuni meccanismi e modalità relazionali, sia per cominciare a pensare a come riorganizzare il personale e quindi la logistica della casa.
La scarsa esperienza di entrambi in lavori di Cooperazione Internazionale non facilitava la possibilità di sfruttare al meglio le nostre capacità e risorse professionali.
Il funzionamento logistico non era dei migliori, il personale sembrava piuttosto demotivato, infatti, l’alternarsi in pochi mesi di differenti Country Co-ordinator, non aveva sicuramente favorito l’omogeneità di comportamenti, creando disorientamento fra il personale locale, confuso da direttive non sempre unidirezionali e trasparenti.
La logistica può sembrare un aspetto irrilevante e di poco conto, ma la funzionalità e l’efficienza nell’organizzazione di una casa, delle persone che vi lavorano, dei mezzi e del personale locale impegnato nei progetti, oltre alla tenuta dei conti, per quello che concerne la vita nel quotidiano e per quello più strettamente legato ai progetti sono elementi da non sottovalutare.
Non bisogna dimenticare, che ci si trova ad operare in paesi difficili, considerati in emergenza, dove chi lavora direttamente sui progetti, non può e spesso non ha il tempo di occuparsi di questi aspetti meramente organizzativi.
Le problematiche nell’attuazione di un progetto sono quotidiane come quotidiani sono gli imprevisti, quindi ritagliarsi il tempo per aspetti organizzativi toglie tempo peraltro indispensabile all’attuazione dei progetti stessi.
Sorge a questo punto spontanea una riflessione riguardo a quanto abbia inciso il fattore “gender” sulla figura dei Country Co-ordinator susseguitisi in così poco tempo: sono state, infatti, tutte donne.
Mi preme sottolineare questo aspetto perchè mi permette di evidenziare ancora una volta, che il luogo in cui si trovano ad operare queste professioniste, non è una nazione qualsiasi, ma l’Afghanistan, paese nel quale fino all’arrivo degli americani, le donne non avevano nessun peso, né politico né sociale e tanto meno organizzativo-decisionale.
Questa situazione di continua emergenza e precarietà ha fatto sì che anche l’ultima Country Co-ordinator rinunciasse all’incarico e lasciasse il lavoro.
Mi sono quindi ritrovato da solo con l’arduo compito di far proseguire tutte le attività, senza peraltro aver avuto alcun passaggio di consegne.
L’Organizzazione, colta a sua volta di sorpresa da tale evento, mi chiedeva di fare il possibile affinché i progetti non fossero fermati.
Purtroppo la mia esperienza nella Cooperazione non era tale da permettermi di lavorare con serenità, e sfido chiunque a poterlo fare, trovandosi isolato, e spesso frustrato dal punto di vista professionale, per l’impossibilità avvalermi delle competenze in campo psicologico, in quanto erano altre le priorità del momento.
Il non poter condividere questa esperienza, il non potere confrontarmi e avere più punti di vista sulla situazione non faceva che aumentare il mio senso di solitudine.
La convinzione di non abbandonare i beneficiari, è stata la sola risorsa e motivazione che hanno fatto sì che non mi congelassi in una posizione di stasi nell’attesa dell’arrivo della pedagogista.
Le domande che sorgono in queste circostanze sono molteplici; qual è il mio ruolo?, cosa devo fare per essere utile?, cosa si aspettano i Donors? E soprattutto cosa posso dare e quali aspettative hanno i beneficiari locali dei progetti, ovvero tutta la gente con la quale quotidianamente dovevo relazionarmi ed aiutare?
L’arrivo della pedagogista, è stato fonte di sollievo per la possibilità di condividere sia di emozioni e vissuti, sia strategie di intervento.
Il mio intervento psicologico ha però cambiato obiettivo: non più rivolto a sostenere progetti o supportare personale locale, bensì prevalentemente rivolto a sostenere il ruolo e la figura della responsabile del progetto.
Come detto in precedenza ci si trova a lavorare in situazioni difficili, dove non è facile ottenere il rispetto e la collaborazione del personale locale, se poi si aggiungono problemi organizzativi, i progetti di emergenza, diventano un’emergenza anche per il personale espatriato, che oltre a non sentir riconosciuto il ruolo da coloro con i quali si dovrebbe collaborare, non possono nemmeno sentirsi riconosciuti da coloro ai quali dovrebbero essere di aiuto, in quanto la sfiducia in se stessi per i troppi ostacoli, porta a stati di sospensione in cui non si agisce per paura di fallire o complicare relazioni o rapporti già precari per definizione.
Il lavoro fatto con la pedagogista, è stato per me molto utile dal punto di vista personale e professionale, siamo riusciti a scindere e distinguere le nostre inadeguatezze dalle carenze e inadempienze dell’Organizzazione, riuscendo così a riorganizzare le forze e le risorse per dare un senso alla nostra permanenza.
Intervistare gli operatori, per individuare reali bisogni e necessità per svolgere un compito il più possibile psico-educativo per i ragazzi, renderli partecipi delle nostre iniziative e idee, ha sicuramente portato a una collaborazione utile per lo svolgimento del progetto e per un maggior supporto ai ragazzi.
Anche i colloqui con i ragazzi, e soprattutto con le ragazze, sulle quali spesso grava l’accusa di adulterio – e per questo sono rinchiuse nel centro in attesa di giudizi e sentenze, non sempre di veloce raggiungimento – hanno favorito un nostro avvicinamento ai ragazzi, spesso abbandonati, sia per motivi economici dei familiari, sia per la vergogna degli stessi di dover sopportare la macchia di un figlio reo di un piccolo furto, o di un adulterio a volte nemmeno consumato.
I Centri di recupero, dovrebbero provvedere a un reinserimento graduale dei bambini e dei ragazzi nelle famiglie d’origine e nella società, non dispongono in realtà di fondi e di risorse umane necessarie per questo tipo di intervento, e così i ragazzi sono “parcheggiati” in una situazione di stallo, bloccati in qualsiasi tipo di socializzazione, scolarizzazione, evoluzione e integrazione.
Il nostro progetto, sulla carta molto ambizioso e socialmente utile, era indirizzato proprio all’alfabetizzazione, all’inserimento nel modo lavorativo e alla possibilità di un reinserimento familiare di questi ragazzi.
I colloqui con gli operatori del centro sono stati a volte molto difficili a causa della diversità di obiettivi, le loro aspettative erano prevalentemente mirate a benefici economici e a un alleggerimento del carico di lavoro grazie all’aumento di personale.
Sensibilizzare queste persone a una maggiore attenzione dal punto di vista psico-sociale e educazionale, nel contesto di un paese, che dopo quasi trent’anni di guerre, ha ancora come obiettivo la soddisfazione dei bisogni primari, con una conseguente scarsa sensibilità alle problematiche di tipo più strettamente psicologico e sociale, è stato uno dei miei obiettivi.
Le difficoltà da me riscontrate e condivise da altri cooperanti, ritengo siano un piccolo aiuto, per limitare le illusioni di chi parte per mete lontane con grandi sogni e bei propositi.
Spesso nello sviluppo di un progetto le circostanze richiedono di mettere da parte capacità e professionalità, per prestare più attenzione alle reali necessità delle persone che si va a sostenere e supportare.
Non è detto che esportare modelli o soluzioni da noi ormai convalidati come miglior strada per l’ottenimento di certi risultati, lo sia in eguale misura in altre situazioni, dove altre culture e altre leggi a volte consolidate dalla consuetudine hanno permesso a quelle società di sopravvivere fino al nostro arrivo.
E’ indispensabile orientarsi dentro i confini dati dal tipo di società in cui si interviene, per ottenere il miglior risultato possibile nel rispetto delle loro premesse, trascurando se necessario i nostri obiettivi, e i nostri modelli.
Considerare un risultato per noi negativo, comunque un risultato positivo, ci orienterà verso un’altra strada più agilmente percorribile nel proseguimento di quel progetto o di altri in quel tipo di società e cultura.
Questa mia lunga, ma in realtà “breve” esperienza, è stata stimolo di riflessioni per quello che riguarda la spendibilità di una professione come quella dello psicologo in paesi considerati in emergenza: il rischio di bourn out, è molto alto, a causa dei frequenti imprevisti e dei tempi a volte dilatati per la realizzazione di un progetto, (spesso, infatti, hanno un periodo di realizzazione sulla carta di soli quattro o sei mesi), va aggiunto che senza un’adeguata preparazione personale, prima della partenza e una rielaborazione unita a una condivisione dell’esperienza al rientro, possa dar modo al verificarsi di spiacevoli conseguenze personali e professionali non sempre di facile gestione per le persone coinvolte.