Autore(i): Roberto Marino. Az Ospedaliera di pavia; Centro Eos Pavia
L’autore conduce alcune riflessioni fra i rapporti intercorrenti fra la psicotraumatologia e la psicopatologia generale. In particolare i disturbi post traumatici non vengono visti come un sottoinsieme a se stante della patologia psichiatrica; come risulta nel DSMIV il PTSD nei confronti delle restanti entità nosografiche. La psicotraumatologia offre la possibilità di posizionarsi in un ottica differente, in una angolatura da cui risultano complessi rapporti fra gli eventi della vita, l’esperire e la salute mentale
(Moltecose) “turbano la serenità, ma ancor più la sconvolge il fatto che gli uomini,
simili alle mosche che scivolano sulle pareti lisce degli specchi,
ma restano attaccate alle superfici aspre e ruvide, tendono anche loro
a scorrer via dai ricordi lieti e piacevoli per avvinghiarsi a quelli sgraditi; o meglio,
come gli scarabei di Olinto, di cui si racconta che si precipitino in un posto chiamato
“cimitero degli scarabei”, da dove, una volta entrati, non riescono più a uscire
e vi si aggirano in continuazione fino alla morte, così anche la gente, una volta piombata
nel ricordo dei propri mali, non è più disposta a risollevarsi e a riprender fiato.
(…) “L’armonia dell’universo, come quella di una lira o di un arco, è l’effetto di tensioni contrastanti”,
tra le cose umane non ce n’è una che sia pura ed esente da commistione.
Come in musica ci sono note gravi e note acute, e in grammatica vocali e consonanti,
e musico e grammatico è non chi rifiuta ed evita uno dei due elementi,
ma chi li sa utilizzare e fondere tutti in modo appropriato, così, dato che anche le cose
hanno in sé i loro opposti e, secondo Euripide beni e mali non possono stare disgiunti,
ma esiste una loro mescolanza, che va a buon fine [1] ,
non bisogna perdersi di coraggio e cedere di fronte alle avversità, ma al contrario,
come i musicisti, armonizzano sempre alti e bassi e avvolgendo gli eventi
più sfavorevoli e quelli più positivi, dobbiamo fare della nostra vita
una mescolanza armoniosa e a noi conveniente” [2] .
Qualcuno potrebbe chiedersi il perché di una rivista che si occupa sia di psicotraumatologia sia di psicopatologia. Si potrebbe essere tentati di intravedere nella psicotraumatologia una sottoentità definita della psicopatologia generale. Un po’ come il post traumatic stress disorder rispetto all’insieme delle patologie psichiatriche elencate nel DSM IV R.
Se pur tale visione sia provvista di una coerenza interna alcune riflessioni ci hanno condotto a pensare che i rapporti fra psicotraumatologia e psicopatologia siano più complessi.
Sono passati diversi anni da quando mi è capitato di imbattermi, quasi casualmente, in un “modello di pensiero” che mi sembra tuttora trascurato o malcompreso dalla psichiatria e dalla psicologia contemporanee: la psicotraumatologia.
Era il 1996 quando davanti ad una birra in un pub sotto il rosso cielo di Maline, il Cdt. Quintyn [3] , il Dr. Henrich [4] ed io riflettevamo sulle analogie esistenti fra l’occuparsi dei disturbi psichici conseguenti ai traumi ed il riflettere sull’ontologia della psicopatologia.
Anche se il considerare alcune manifestazioni psicopatologiche come strettamente legate a traumi, prevalentemente infantili, appartiene alle tesi eziopatogenetiche tradizionali della psichiatria, nella pratica terapeutica ciò rimane troppo spesso su uno sfondo troppo lontano. Una delle critiche più frequentemente poste al modello psicotraumatico è che ciò costituisce una semplificazione eccessiva delle dinamiche e dei fattori in gioco. Per superare tale critica non rimane altro che cominciare ad addentrarci in questo modello interpretativo.
Il concetto di trauma porta con sé alcuni importanti vantaggi: la causa traumatica rimanda ad un ordine temporale (Petrella 1996). Ciò che osserviamo oggi trova le sue ragioni d’essere in uno o più avvenimenti passati. Esplicitare ciò in terapia significa costruire una storia, dei legami fra il soggetto ed il suo ambiente, costruire insieme ipotesi interpretative con dinamiche temporali che possano riavviare un tempo figé, un richiudersi su se stessi tipico di questi pazienti. Durante una consultazione effettuata per conto del Centro Eos per le vittime di traumi e catastrofi, una bambina di 12 anni, che aveva perso il padre da meno di due mesi e che accusava ogni sera alle 23,45 dolori addominali, mal di testa, crisi d’ansia con pianto e vomito, mi ha detto: “io non voglio parlare con te, voglio tenermi le mie crisi perché non voglio dimenticare mio padre”. Il poter intervenire subito facendo riferimento al concetto traumatico ha permesso di sbloccare la situazione in modo tale che la bambina, senza la necessità di una terapia farmacologica, è stata progressivamente meglio.
Le sindromi traumatiche e la loro apparizione dopo uno choc emozionale, un trauma, rischiano di essere ignorate. Così persone come la bambina cui accennavo, rischiano di essere trattate con terapie farmacologiche non adatte, o rischiano di intraprendere lunghe ed eccessive psicoterapie. Terapie comunque non sempre adeguate e che spesso favoriscono, o non ostacolano, il cronicizzarsi del disturbo, mentre, se precocemente riconosciute e trattate, le sindromi psicotraumatiche si risolvono spesso velocemente.
Occorre inoltre considerare che (Petrella 1996) l’alternativa all’ipotesi traumatica, psichica o no, è sempre stata l’ipotesi processuale. Ipotesi che rischia di portarci su posizioni non terapeutiche ma, nella migliore delle ipotesi, di “mantenimento”. L’accento si sposta dal trauma al “terreno sfavorevole”, al deficit strutturale e personale su cui l’evento agisce. Terreno sul quale si può far poco se non introdurre il soggetto in un sistema che lo protegga: ambienti protetti, fitte reti sociali che modulino i rapporti che lo stesso ha con il mondo esterno e che a volte contribuiscono al suo isolamento. Non è certo mia intenzione sminuire l’importanza di questo “terreno”. Una riflessione sul trauma non può infatti trascendere dal considerare il rapporto fra un evento esterno al soggetto, le capacità del soggetto di confrontarsi con tale evento e l’ambiente sociale e culturale in cui il soggetto si trova.
Secondo Binswanger (1931) stabilire cosa è traumatico per lo psichico comporta sia valutare la soggettività delle risposte, sia riflettere sulla dialogicità fra accadimento ed erlebnis. Questi due concetti ci introducono al rapporto esistente fra un evento ed un “sentire” che in questo accadere introduce o trova un senso. Vediamo che ciò che inizialmente poteva sembrare un’opera di semplificazione in realtà arricchisce il tentativo di comprensione dell’individualità umana con numerose variabili. Tentiamo così di distinguere fra un avvenimento che, se considerato come noumeno kantiano, non sappiamo se provvisto di senso in sé; un erleben che, a seconda di come consideriamo l’accadimento, “introduce” o “attinge” da esso un senso; e infine ciò che media i rapporti fra questi due termini, sia questo la cultura, la società, l’ambiente, le circostanze particolari od altro ancora.
Mi sembra di un certo interesse il tentativo di Straus (cit. da Binswanger 1931) di superare la contrapposizione fra erlebnis e accadimento usando l’espressione “accadimenti psichici”. Se ciò ha il vantaggio di evidenziare un certo nesso di causalità fra i due concetti ha tuttavia lo svantaggio di invitare il lettore a soprassedere sulla problematica inerente al rapporto e cedere alla tentazione, rischio messo in evidenza dallo stesso Straus, di concepire una relazione causale stimolo-reazione di tipo “biologico”, “scientifico”: un accadimento determina coercitivamente un erleben. Tale idea la si ritrova chiaramente espressa nella nosografia psichiatrica più correntemente utilizzata, come il DSM IV o l’ICD 10, basti vedere i criteri per la dignosi di PTSD. Sembra che un avvenimento se traumatico provoca una serie di sintomi che sono sempre uguali. Ed effettivamente una autrice e psicoterapeuta di esperienza come Sironi nel 1989 rileva che i disturbi psichici di persone sottoposte a tortura sembrano essere identici per tutti i torturati indipendentemente dalla loro storia individuale e appartenenza culturale (Sironi 1989).
Straus, partendo dall’esempio di un incendio in un teatro, afferma che il fatto che un qualcosa venga percepito dipende dall’intrinseco significato che “il percepito ha per il percipiente”. L’accadimento “incendio” provoca la fuga delle persone che sono in teatro in quanto in esso vi è il senso “pericolo di morte”. Per quanto il nesso di causalità sia per Straus un nesso particolare vi è comunque una “costrizione di senso” che l’accadimento esercita su i presenti. Binswanger da parte sua sottolinea che “anche quando il senso che si trae è quello di un pericolo mortale e della fuga, è sempre l’individualità e non l’accadimento, non il mero fatto di trovarci ad esservi coinvolti, a decidere del senso e della configurazione dell’erlebenis, a esprimersi o a decidersi in esso. (. . .) Il senso ed il significato hanno senso e significato soltanto per l’individualità, cioè per questo determinato io e per il suo mondo”. Ciò che Binswanger lascia tra parentesi è che la “relativa coincidenza” per cui più individualità reagiscono in modo simile è una coincidenza, appunto, solo relativa. Ben inteso che questa “coincidenza” nulla toglie al fatto che ognuno deve integrare quello che potremmo cominciare a definire l’evento traumatico nella propria “storia di vita”, per utilizzare una espressione tanto cara allo stesso autore.
Ricordiamo che numerosi studi epidemiologici rilevano che un evento traumatico porta persone con infinite storie di vita a sviluppare nell’100% dei casi reazioni acute da stress fra loro sovrapponibili e solo nel 20% una sindrome psicotraumatica [5] .
A questo punto i termini che necessitano di una definizione cominciano a diventare numerosi: “evento traumatico”, “reazione acuta da stress”, “sindrome psicotraumatica”. Anche se dubito che sia possibile, almeno per alcuni di questi termini, dare una definizione epistemologicamente impeccabile, preferisco per ora lasciarli in questo alone di indefinitezza e provare a fare ancora un piccolo passo.
Abbiamo accennato che se sottoponiamo una popolazione ad un evento che, se pur in modo per il momento arbitrario, viene definito “traumatico”, il 100% delle persone sviluppa delle reazioni acute fra loro sovrapponibili ed identificabili come “reazione acuta da stress”, e il 20%, se la popolazione non è sottoposta ad azioni di prevenzione secondaria, sviluppa dopo qualche mese altre reazioni che vengono racchiuse sotto la definizione di “sindrome psicotraumatica”.
Il fatto che ognuna di queste persone viva questa situazione in modo particolare e personale, e che alcune di queste persone proseguano la loro vita in modo non dissimile da com’era prima dell’evento, ci suggerisce che effettivamente l’evento non è in grado di determinare coercitivamente ed a tutti un medesimo significato di vita. Tuttavia il fatto che molti fra loro sviluppino reazioni simili e sulle quali non hanno potere di arbitrarietà ci suggerisce che questo evento debba pur contare qualcosa indipendentemente dalla storia individuale di ciascuno. Binswanger affronta questo problema introducendo una terza variabile che è “la situazione”, le circostanze nelle quali si produce l’evento e che rendono possibile il rapporto dialettico fra l’individuo e l’evento stesso. Questo rapporto è, secondo l’autore, regolato da una disposizione ontologica dell’uomo: “l’essere per la morte”. Senza addentrarci ulteriormente nell’analisi dell’opera di Binswanger possiamo comunque rilevarne alcune peculiarità. Innanzitutto si introduce un elemento unificatore, la disposizione ontologica dell’uomo, per giustificare la grande concordanza di azioni. In secondo luogo le azioni analizzate, fuga o comportamento eroico, sono reazioni “fisiologiche” in larga misura influenzabili dalla volontà e quindi dal libero arbitrio del singolo che può in una certa misura mantenere se non il completo controllo, comunque una coscienza dei suoi comportamenti. Invece quando parliamo di reazione acuta da stress o di sindrome psicotraumatica non parliamo di semplici comportamenti ma di automatismi mentali e/o comportamentali (ricordo che la coazione a ripetere è da molti considerata uno dei segni patognomonici della sindrome), di una alterazione del tono dell’umore ed altro ancora; comunque ci riferiamo ad elementi su cui il libero arbitrio è ridotto a nulla. Riferendosi alle nevrosi traumatiche Binwanger non può che giungere ad una conclusione: “fermo restando le relazioni causali e biologiche che si possono stabilire tra un incidente ed il manifestarsi della nevrosi, l’incidente non potrà mai essere considerato la causa della nevrosi di indennizzo” e si dovrà “mirare innanzitutto all’erlebnis di significato e temporale”. Coloro che non riescono a guarire erano nevrotici già prima di subire il trauma che avrebbe solo una azione rivelatrice. Questa posizione è di fatto condivisa da gran parte della psichiatria contemporanea sia quando si pone l’accento su presunti traumi infantili sull’effetto dei quali si deve agire per essere terapeutici, sia quando l’accento viene posto sulle presunte disfunzioni organiche slatentizzate dal trauma.
Personalmente devo ammettere di essere rimasto più affascinato e convinto da altre posizioni secondo le quali è l’evento traumatico ad apportare, in vari modi, una nuova conoscenza all’individuo e non una presunta predisposizione ontologica dell’essere umano. Queste posizioni, oltre che essere maggiormente remunerative sul piano terapeutico, permettono di ricondurre il centro della discussione al vero rapporto dialettico fra l’individuo, con tutta la sua unicità, ed un evento a lui estraneo. Di estremo interesse mi sembrano a questo proposito alcune posizioni della scuola psicoanalitica che hanno visto in gran parte concepire l’evento traumatico da un lato come una situazione di frattura catastrofica dell’apparato psichico e dei processi di pensiero che assicurano la continuità dell’autorappresentazione e della rappresentazione del mondo esterno. Dall’altro il trauma rimanderebbe invece ad un avvenimento nuovo, più o meno drammatico, che sorprende il soggetto e gli impone un lavoro di risignificazione (Kluzer 1996).
Queste posizioni ci richiamano alla mente il lavoro di Freud del 1920 “Al di là del principio del piacere”. Qui si definiscono traumatici gli “eccitamenti che provengono dall’esterno e che sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo” esterno della psiche umana. Abbiamo quindi un evento portatore di una nozione (carica libidica o nozione di morte) che non può essere assimilata dall’apparato psichico ma che vi entra senza aver creato dei legami di significazione col mondo psichico del traumatizzato. Discutevo col Cdt. Quintyn se nella terapia dei traumatizzati si dovesse parlare di assimilazione o di integrazione del trauma. Penso che nel termine assimilazione sia escluso il concetto di trauma in quanto la assimilazione degli stimoli è ciò che l’apparato psichico compie quotidianamente scindendo gli stimoli provenienti dall’esterno in elementi costitutivi che hanno precisi legami di significato all’interno dell’apparato psichico.
Viceversa una madre che perde un figlio verosimilmente non sarà più come prima dell’evento traumatico, e non solo perché “panta rei”, ma perché dovrà convivere con una grossa perdita, con un evento che se integrato potrà non essere “traumatico” (nel senso che non creerà note psicopatologiche), ma che comunque per essere integrato all’interno della vita della madre dovrà creare tutto un nuovo mondo di significazioni. Come evento molto difficilmente si scinderà in elementi costitutivi così come accade per gli avvenimenti che sono assimilati.
Individuare in un trauma l’evento non scatenante ma determinante di un disturbo psichico può voler dire restituire l’individuo al suo mondo, permettergli di riaffiliarsi al suo universo culturale. Nathan (1990-1994) partendo da una analisi etimologica dei termini “angoisse” e “frayeur” arriva ad affermare che nel termine frayeur vi è il senso di un incontro del soggetto con un “universo radicalmente diverso dal suo abituale” e che questo “universo” impone la fuoriuscita del soggetto, o meglio del suo “nocciolo”, della sua anima, dalla sua membrana protettrice o enveloppe. In altri termini un incontro è traumatico allorché non è mediato dalla cultura e ciò conduce ad uno scindersi, ad una “fuoriuscita dalla propria membrana protettrice” di ciò che costituisce l’identità della persona. La nozione di traumatismo possiede un vantaggio considerevole: evocando una eziologia interattiva permette di sbloccare processi terapeutici interattivi e permette, attraverso l’instaurazione di un dispositivo tecnico che favorisca i processi di riaffiliazione, di restituire la persona al suo ambiente socioculturale.
Come si conveniva in un pub a Maline, occuparsi di psicotraumatologia equivale ad occuparsi dell’ontologia della psicopatologia.
Bibliografia
Binswanger L. (1931)
Accadimento ed Erlebnis.
Titolo originale “Geschehnis und Erlebnis” in “Per un’antropologia fenomenologica” Feltrinelli 1989
Briole G., Lebigot F. et all. (1994)
Le traumatisme psychique: rencontre et devenir Masson 1994
Crocq L. (1992c)
Panorama des sequelles des traumatismes psyques Psychologie medicale, 1992, 24, 5
DSM-IV-TR (2001) Ed. Masson
Freud S. (1920)
Al di la del principio di piacere in Sigmund Freud Opere Vol 9 Boringhieri, 1977
Kluzer G. (1996)
Nuove ipotesi interpretative del concetto di trauma
Rivista di psicoanalisi, 1996, XLII, 3
Nathan T. (1990) Angoisse ou frayeur. Un probleme épistémologique de la psychanalyse.
“Nouvelle Revue d’Ethnopsychiatrie”, N°15 1990
Nathan T. (1994) L’influence qui guerit
Edition Odile Jacob, 1994
Petrella F. (1996)
Traumi psichici. Il trauma infantile nella prospettiva dell’adulto Gli Argonauti
Quintyn L. (1996c)
L’état de stress post-traumatique: reflexions theoriques et pratiques.
Conferenza presentata al CHU di Liége il 16-11-1996 Centre de Psychologie de Crise HMRA Bruxelles. Non pubblicato
Sironi F. (1989) Approche ethnopsychiatrique des victimes de torture
Novelle Revue d’Ethnopsychiatrie, 1989, N°13
Note
[1] Citazione dall’Eolo, una perduta tragedia di Euripide
[2] Plutarco –La serenità interiore–
[3] Già direttore del Centro di Psicologia di Crisi di Bruxelles, ora responsabile per il governo belga del programma di accoglienza dei rifugiati
[4] Consultant psichiatra a Londra
[5] in caso di assenza di prevenzione secondaria