Autore(i): Le Médecin Chef des Services LEBIGOT F. Professeur Agrégé du Val-De-GrâceHôpital d’Instruction des Armées PERCY
La nevrosi traumatica impone al soggetto di confrontarsi con gli effetti che un terribile spavento provoca nell’apparato psichico, riattivato ad ogni manifestazione della sindrome di ripetizione. Il primo è il sedimentare all’interno dell’apparato psichico di una rappresentazione della propria morte, e della perdita dell “illusione di immortalità”.
Il momento traumatico è anche un momento di esclusione in cui il linguaggio si sottrae, un momento di indicibile isolamento che si traduce con sentimenti di vergogna e abbandono. Infine questo fugace confronto con l’annichilimento realizza una sorta di trasgressione che il soggetto sentirà come una colpa. Questi fenomeni sono all’origine di diverse manifestazioni psicopatologiche riscontrabili nella nevrosi traumatica, e permettono un primo livello di comprensione di tale sofferenza psichica. Questi donano anche delle precise indicazioni sui modi di intervento psicoterapeutico nei differenti momenti di evoluzione della nevrosi.
Summary: the traumatic neurosis confronts the subject to the effects of dread in the psyche, that worsen everytime the syndrome of repetition displays. First of them is the embedment into the psychic apparatus of a oneself as dead picture, and the loss of “ the immortality illusion ”. The traumatic moment is an exclusion moment too in which the language disappeared, an unspeakable moment of dereliction creating feelings of shame and abandonment. At last this transient confrontation to nothingness under cover of dread realizes a transgression that the subject will bear as a fault.
The various psychopathological manifestations of the traumatic neurosis originate from these phenomena, that enable a first understanding level for the expressed suffering. They also give unseful indications about the ways of psychotherapic interventions according to the evolution of the disease.
Key words : Port traumatic stress disorder, clinic, psychopathology, psychotherapy.
La nevrosi traumatica è la sola patologa psichica che, prendendo origine da una avvenimento traumatico estremo occorso nella vita del malato (1), trae le sue particolarità dalla natura stessa degli effetti intrapsichici immediati di questo avvenimento.
Anzi contrariamente a ciò che può lasciare intendere la sua attuale denominazione di “disturbo post traumatico da stress”, differisce in modo fondamentale dalle patologie definite “reattive” (nevrotiche o psicotiche) in cui l’avvenimento scatenante non determina la forma che prenderanno i sintomi.
Esamineremo il legame di identità fra lo sconvolgimento sincronico all’effrazione traumatica nell’apparato psichico e le differenti modalità in cui si estrinsecherà la sofferenza psico-traumatica.
La sindrome di ripetizione ne fornisce una illustrazione immediatamente accessibile di cui studieremo le caratteristiche in un primo capitolo. Successivamente esamineremo gli effetti durevoli e continui del traumatismo, così come sono vissuti dai pazienti, che determinano una gamma di turbe psicopatologiche comprendenti la fine dell’illusione di immortalità, sentimenti di vergogna, di esclusione e di abbandono, e in fine un sentimento di colpa non sempre cosciente ma il cui ruolo è centrale nell’evoluzione della nevrosi.
Per finire accenneremo alla presa in carico terapeutica nella misura in cui la clinica chiarisce i differenti momenti della presa in carico terapeutica
I – Il momento del traumatismo e la sua ripetizione
Il nostro rapporto abituale con il “reale” è fatto di sensazioni e rappresentazioni che trovano nell’inconscio altre rappresentazioni pronte ad accoglierle, queste a loro volta legate ad altre rappresentazioni. L’istante presente sarà interpretato alla luce di un passato e si inserirà in una rete di interpretazioni e di significati. Testimoni di uno stesso avvenimento daranno resoconti differenti ed ogni resoconto evolverà nel tempo. I legami fra le rappresentazioni deformano i ricordi e li costituiscono come tali, posizionandoli nel passato.
Non accade lo stesso con un avvenimento traumatico. Questo, attraverso il manifestarsi della ripetizione, è sempre rivissuto come se fosse presente e non subisce alcuna trasformazione. Non ha trovato nell’inconscio rappresentazioni per accoglierlo, legarlo, modificarlo. Ognuno sa che dovrà morire, disse Freud (2), ma nessuno ci crede veramente, il ché significa che non ci sono nell’inconscio rappresentazioni di se come morti (viviamo tutti come se fossimo immortali). Ed è proprio questa rappresentazione che si è imposta nell’istante del traumatismo.
I primi attimi di vita di ogni uomo offrono esperienze di annientamento. Mentre si apprende il linguaggio, si effettua poco a poco una prima rimozione, chiamata primaria o originaria, che rende questa esperienza inaccessibile e dunque non rappresentabile. Nell’inconscio, è la castrazione, la perdita di un qualcosa supposto essenziale che verrà a rimpiazzarla. Raffigurazione dell’annientamento, l’immagine traumatica non troverà luoghi che possano accoglierla in questo apparato psichico costituito sul solco tracciato dalla rimozione primaria. Sarà un “corpo estraneo interno” (Freud) inaccessibile al lavoro del principio del piacere,e che avrà il potere di ripresentarsi intatta sia durante il sonno che la veglia. Ben oltre uno spavento, questo “vuoto” emozionale che si scatena ad ogni sua manifestazione, inscrive nel cuore del soggetto la certezza della sua fine imminente.
Possiamo ora trarre alcune osservazioni cliniche
1- Ciò che si ripropone durante la sindrome di ripetizione è un’immagine reale. Questa non può essere che una riproduzione di una percezione, sensitiva o sensoriale. D. Gonin parla del trauma come del “trionfo devastante della sensazione allo stato bruto” (3). Contrariamente a quanto si può trovare a volte scritto, un racconto, per quanto possa essere drammatico, non potrà mai essere traumatico, non più di un’immagine virtuale (cinema, televisione). Incubi “ripetitivi” frutto di complessi meccanismi di identificazione, sono stati riscontrati anche in figli di deportati. In tutti questi casi, d’altronde rari, l’immagine mentale risulta essere una costruzione fantasmatica, sviluppatasi da materiale immaginario e simbolico. L’approccio terapeutico sarà differente. Questi sono i soli casi in cui si pone un reale problema di diagnosi differenziale della nevrosi traumatica.
2- Spesso, ma non sempre, grazie a una relazione transferale, nei sogni l’avvenimento iniziale può essere progressivamente mutato da elementi provenienti da rappresentazioni del soggetto. Queste stabiliscono dei legami con l’immagine traumatica, a volte fino a “naturalizzarla”, metaforizzarla completamente (4). Evidentemente questo processo deve essere ciò cui deve tendere ogni lavoro psicoterapeutico.
3- Sebbene non svelata, ma solo presentata, il reale di cui si discute esercita un potere di fascinazione sugli uomini: questo viene evidenziato ad esempio dall’assembramento durante gli incedenti stradali, lo share di alcune sequenze televisive, il protrarsi delle guerre. La sofferenza che questi avvenimenti causano non impedisce alle immagini traumatiche di avere un potere su chi le produce. Con il passare del tempo sarà sempre meno facile difendersi. Questo è un aspetto determinante riguardo alla evoluzione della malattia e alla terapia (5).
4- Ma queste immagini che fascinano sono anche persecutrici e conferiscono un alone di persecuzione a tutta la nevrosi, alone che sarà più o meno accentuato secondo le strutture di personalità. Il terrore dell’annichilimento, nella solitudine più radicale, genera un sentimento di ingiustizia, ossia di una “umiliazione subita per mano di un potere assoluto e arbitrario”(1). Vengono posti qui degli aspetti che non esamineremo e che riguardano gli aspetti evolutivi, e che riguardano fra l’altro le difficili relazioni con l’entourage e le metamorfosi a volte drammatiche dei processi di riconoscimento e riparazione. Anticipando quanto sarà analizzato in seguito, si vede di già che i sentimenti di colpa avranno a questo riguardo una funzione pacificatrice: “cosa ho fatto per meritare ciò” si interroga il paziente che rifiuta di identificarsi totalmente con lo statuto di vittima.
II Effetti durevoli e continui del traumatismo e della sua ripetizione.
1. La perdita dell’illusione di immortalità
Questa è il corollario del radicarsi nell’apparato psichico di una immagine della realtà della morte. La vita sconvolta di questi pazienti permette di toccare con mano quanto questa illusione sia necessaria, e l’incomprensione che le vittime incontrano nel loro entourage più accogliente dimostra quanto sia fondamentale. “Vulnerant omnes, tutte le ore feriscono, l’ultima uccide” avvertivano le meridiane romane. Loro sono sempre nell’ultima, come mostrano le loro reazioni di soprassalto.
La loro angoscia viene inizialmente di là, così come i loro terrori notturni, alcune fobie, le loro affezioni psicosomatiche più gravi.
L’abuso di droghe e alcool è il mezzo più soventemente scelto per combattere questo timore di morte imminente, che sanno essere irrazionale ma non di meno insormontabile. Infine il colpo portato al narcisismo dalla fine dell’illusione di immortalità provoca a volte dei gravi stati depressivi.
Claude Barrois parla a questo proposito di “perdita di se stesso” come “oggetto narcisistico molto particolare, che non ingloba solo il narcisismo del valere: il contenuto, le idee ecc., ma anche il narcisismo del contenente: la confidenza e la sicurezza negli strati psichici e nell’Io pelle (1)
Alcune situazioni, alcuni fatti, per i loro rapporti con l’avvenimento traumatico, sono percepiti come più pericolosi di altri. Alcuni malati si ritirano definitivamente in loro, si rinchiudono nella penombra. Il venire alla consultazione può costituire un esporsi: “è sufficiente che mi prepari per venire da voi per essere certo che ci sarà una bomba all’ospedale” dicono i pazienti che hanno subito un trauma in un luogo pubblico.
Il sentimento di non essere più “come prima” espresso con tanta forza, riguarda il cambiamento provocato dalla presenza della morte nell’apparato psichico. Alcuni si spingono oltre: vivono come in uno stato di precarietà, o come dei “morti viventi”, degli zombi che non riescono più ad investire sulla realtà.
2. La vergogna
Una delle caratteristiche del momento dell’effrazione traumatica, piena di conseguenze, è che questa esclude il soggetto dalla comunità degli uomini. Durante un breve istante la vittima è “disabitata” dal linguaggio, nessuna rappresentazione, nessun termine può rappresentare l’esperienza vissuta. Il sentimento che retrospettivamente, trascorso l’attimo dello spavento, corrisponde a questo momento è la vergogna: “mi sono ridotto allo stato di una bestia” sosterrà la vittima sfuggita all’attentato. In effetti lasciare sia pure per una frazione di secondo la dimora del linguaggio equivale a disertare l’umano, a non essere più che una cosa o un animale. Spesso la vergogna è espressa nei termini dell’abbandono. Questo sentimento può essere così forte che sarà qualificato, come lo stesso trauma, come indicibile. In alcuni casi sarà posto in primo piano dall’esperienza, allorché il terrore si prolunga e il contesto è quello di una reale solitudine: strade deserte in cui il soggetto è stato aggredito, cabina telefonica guasta dove passerà la notte, soldato isolato dalla compagnia ecc.
La sindrome di ripetizione, rinnovando ogni volta la frattura con la comunità degli uomini, finisce con il mantenere o perfino aggravare questi sentimenti: “sono come un animale che si nutre dei suoi escrementi” commentano questi pazienti in cui ogni notte è popolata di incubi.
In linea generale ciò che caratterizza la vergogna è un destino di esclusione. Più il tempo passa più il soggetto si sentirà un essere differente e un po’ ripugnante. Questo è un aspetto del traumatismo psichico che viene preso in considerazione nelle terapie tradizionali africane (6).
Un giovane militare francese era stato, durante una operazione di peace-keeping, spettatore sbalordito da una scena di una carneficina orribile. Ritornato in seguito alla vita civile, il sintomo che maggiormente lo infastidiva era il non potersi recare in nessun luogo affollato, e soprattutto nei trasporti pubblici in cui i passeggeri sono uno di fronte all’altro. Finì con il realizzare che ciò di cui aveva timore era il poter incrociare lo sguardo di uno sconosciuto che gli leggesse negli occhi “il terrore che aveva dentro”.
Oltre alla tendenza ad escludersi dal mondo degli umani, oltre fobie, la vergogna è parte integrante di una serie di turbe del comportamento: violenza auto ed eteroaggressiva, alcolismo, e in particolar modo ritiro sociale.
3. Il sentimento di colpa.
Un medico è indotto ad intervenire su un crash aereo. Le autorità locali gli domandano di accompagnarli dove sono riposti i resti delle vittime. Su un tavolo di marmo nero è posta la testa di una donna, un po’appiattita con un occhio fuoriuscito dalla sua orbita.
Non appena lo vede, il medico cade, fascinato da questo spettacolo: “in quel momento”, dirà più tardi, “ho varcato una linea rossa”. Sconterà questo attraversamento inizialmente con l’angoscia, i primi giorni, poi con una sindrome di ripetizione nella quale quest’occhio tornerà a fargli visita. Aveva visto ciò che non si doveva vedere, ed era stato visto da “i resti di ciò che fu un essere vivente” (1).
L’esperienza traumatica si presenta spesso in questi termini, come l’attraversamento di una zona interdetta. Poco importa che il soggetto non avrebbe voluto vedere, desiderare, ricercare; lui ne ha colpa. Nel linguaggio freudiano, vi è in questa effrazione del rimosso primario l’analogo di un ritorno alle origini, verso il ventre materno (7) (8).
Questo medico ha presto compreso in cosa si era smarrito, e che necessitava di un traghettatore per oltrepassare a ritroso l’Acheronte. Ci vorrà come obolo un pezzo del suo corpo. Un sogno sancirà la fine della sindrome di ripetizione, nel quale perde uno dei suoi denti.
Un altro paziente, un giovane uomo di origine libanese, è stato spettatore in piena guerra civile a Beirut di una scena particolarmente atroce. La sua psicoterapia termina con un sogno nel quale lui ha potuto pagare la sua decima. Lui è attorniato da militari armati che lo minacciano. Gli rende il suo passaporto francese attendendosi una protezione, ma al momento del risveglio scopre di avergli donato il suo libretto di risparmio (5).
Il sentimento di colpa può non essere sentito come tale, o essere razionalizzato in modi assurdi, o in modi più credibili. Anche il sentimento di colpa dei sopravvissuti, così largamente riscontrato nelle situazioni collettive (deportazioni, guerre, attentati) non si può spiegare unicamente con la realizzazione di un desiderio di morte inconscio. Né con la “colpa” di non aver fatto abbastanza per gli altri (9). La colpa è più fondamentale, legata all’effrazione stessa e alla sindrome di ripetizione nella quale l’immagine reale si offre nuovamente alla contemplazione inorridita.
Sul piano clinico, conscio o inconscio, la colpa è all’origine di numerose manifestazioni patologiche. E’ evidente, spesso associata alla vergogna, nel determinare disturbi della condotta auto o etero aggressivi. Certe vite prendono, dopo un traumatismo psichico, un corso francamente masochista e autodistruttore.
Ma solitamente è la depressione che si nutre del sentimento di colpa, con il rinforzo della ferita narcisistica evocata più sopra e del vissuto di abbandono. Ciò pone un problema che ispira numerosi ricercatori. Questa non figura come tale nel capitolo dedicato al PTSD dell’ultima versione del DSM, ed è giusto menzionata come possibilità nell’ ICD10. Gli studi epidemiologici più recenti hanno la tendenza a trattare il problema in termini di comorbilità, interrogandosi sul fatto che può apparire prima della comparsa di un PTSD (10). E’ ammesso da quasi tutti i ricercatori che la sua presenza è quasi costante in una sindrome di ripetizione che dura anni, e anche che è il miglior fattore predittivo, nonché il più precoce, per una ulteriore cronicizzazione del PTSD (11).
A nostro avviso ciò mostra che non si può separare l’effrazione traumatica dal senso di colpa che genera, non più che la vergogna dello spavento o il crollo narcisistico dell’illusione dell’immortalità. Per restare sul sentimento di colpa, è evidente che ogni incubo realizza una nuova trasgressione, ancora più accentuata dal fatto che, questa volta, la contemplazione orrifica non è più imposta dall’esterno: “Ho cominciato a star meglio quando ho compreso che ero io stesso colui che produceva, realizzava e metteva in scena i miei incubi” dice G.I. americano, reduce del Vietnam, perseguitato per anni da idee di suicidio, e che non trovava qualche istante di pace che disteso in una tomba che lui stesso si era scavato in un sottobosco (12).
III Incisi sul trattamento
Una presa in carico precoce, pur se di breve durata, ha notevole efficacia sugli aspetti di vergogna e abbandono. L’arrivo di soccorsi psicologici sul luogo del dramma manifesta l’interesse della comunità dei viventi che la vittima si ricongiunga velocemente al resto della società. L’intervento permette alla vittima di restaurare il primato della parola sulla assenza del linguaggio: vi è qualcosa da dire su ciò che è accaduto e vi sono interlocutori per ascoltare e comprendere.
Il “debriefing” individuale o collettivo, effettuato i giorni seguenti, rinforza questa azione per il solo fatto di essere realizzato. Il suo principio, che è di permettere ad ogni vittima un racconto dei fatti accaduti, delle emozioni e dei pensieri che si sono succeduti prima, durante e dopo l’esperienza traumatica permette avviare le rappresentazioni dell’inconscio intorno all’immagine radicata della mente nella speranza che si stabiliscano fra loro delle connessioni. A volte ciò è sufficiente per attivare processi funzionali e il soggetto prosegue, fuori da un cadre terapeutico, e a sua insaputa, il lavoro di elaborazione. Altre volte tale lavoro non può che effettuarsi all’interno di una relazione transferale, con maggiori chances di successo se sarà iniziata tempestivamente, prima che la moltiplicazione dei fenomeni di ripetizione aggravi la situazione.
Quantomeno all’inizio una manifestazione apparentemente patologica deve essere rispettata dal terapeuta: l’espressione di un sentimento di colpa. Certamente questo è prodotto dall’effrazione traumatica, ma è anche un tentativo di auto-guarigione. Le psicoterapie condotte per lungo tempo mostrano bene il ruolo che il sentimento di colpa può giocare. Il cammino da percorrere mostra una sorta di paradosso moralmente inammissibile ma che impone la logica dell’inconscio. La vittima deve poter mettersi in posizione di accusato di una colpa grave commessa da se stessa (o da “qualcuno dei suoi”) di cui il trauma è la sanzione.
Questa è la sola via che lo condurrà un giorno, dopo la confessione di colpe fantasmatiche edipiche, cosa che spesso accade nei sogni, a ritrovare ciò che Paul Ricoeur chiama la “colpa metafisica”: essere uomo è “appartenere a una specie globalmente implicata in storie di male” (13). In Termini psicanalitici si tratta di passare dalla angoscia di annientamento, legata al ritorno all’indeterminato, all’ “angoscia di castrazione” che permette all’ “bambino” di divenire il soggetto della propria storia.
Conclusioni
Si deve probabilmente a Kraepelin la migliore definizione di questo stato post traumatico come di “nevrosi da spavento”. Lo spavento, inizialmente al momento dell’incidente, poi durante le manifestazioni della sindrome di ripetizione rileva al soggetto che è costruito intorno al nulla; e lo oggettivizza ogni volta un po’ di più come un bisbiglio di un mondo di essere parlanti.
Tuttavia questa “rottura comunitaria” (1) non è in sé irrimediabile. E’ sempre possibile un rinnovamento dell’alleanza fraterna che si farà con il pagamento di un debito. E’ una operazione lunga e complicata ma che ognuno ha già effettuato una volta, durante la sua entrata nel linguaggio, dal passaggio dal nulla alla castrazione. Ci vuole del coraggio per rinnovarla, quando lo statuto di vittima tende a fare di questo “una persona liberata dai suoi debiti e dai suoi doveri e avente per ragioni infinite dei diritti sugli altri” (14)
Bibliografia
1 – Barrois C. Les névroses traumatiques. Paris : Ed Dunod, 1998.
2 – Freud S. Considérations actuelles sur la guerre et sur la mort. In : Essais de psychanalyse. Paris : Petite bibliothèque Payot, 1964 : 255-267.
– Gonin D. Le rapport vie/mort et sa disjonction dans le processus de victimisation. In : 14ème Assises de l’INAVEM ; 3-5 Juin 1998 ; Villeurbanne.
4 – Lebigot F. Le cauchemar et le rêve dans la psychothérapie des névroses traumatiques. Nervure 1999 ; 12(6).
5 – Lebigot F, Vallet D et al. La demande de soins dans les névroses traumatiques de guerre. Ann Méd-Psycho 1991 ; 149(2) : 131-149.
6 – Djassao G. Traitement de la dépression en Afrique Noire. La cure d’un couple en situation dépressive en milieu Nawada à Lomé (Togo). Psychopathologie Africaine 1994 ; 26 : 61-82.
7 – Daligand L. La thérapie des victimes au risque de la violence. Les cahiers de l’Actif 19$$ ; n° 248/249 : 77-84.
8 – Lebigot F. La névrose traumatique, la mort réelle et la faute originelle. Ann Méd-Psychol 1997 ; 155(8) : 522-526.
9 – Kubany ES, Abveg FR et al. Development and validation of the sources of trauma related guilt survey – war – zone version. J Ttraumatic Stress April 1997.
10 – Bleich A, Koslowsky M et al. Post-traumatic stress disorder and depression : an analysis of comorbidity. Br J Psychiatry 1997 ; 170 : 479-482.
11 – Freedman SA, Brandes D et al. Predictors of chronic post traumatic stress discorder. A prospective study. Br J Psychiatry 1999 ; 1974 : 353-359.
12 – Andro JB. L’effroi des hommes [enregistrement vidéo]. Time – code Production, 1990.
13 – De Solemne M. Innocente culpabilité : dialogue avec Paul Ricoeur. Paris : Ed Devry. 1998.
14 – Morizot S, François I et al. Des pédophiles aux “ pédoprotecteurs ” : quelle place pour l’enfant ? Ann Méd-Psychol 1999 ; 157(10) : 726-730.
Articolo comparso su: Revue Francofone du Stress e du Trauma tome 1 n°1 de la page 21 à 25 novembre 2000