Autore(i): Nicola Lalli, Cristina Germanà, Silvia Ingretolli
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica,Servizio Speciale di Psichiatria e Psicoterapia
Prima Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
In riferimento al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), il DSM IV stabilisce i criteri diagnostici per valutare i sintomi dovuti ad eventi stressanti e traumatici. Coesistendo, nella classificazione del PTSD, i concetti di stress e trauma come cause dello stesso disturbo, possiamo rischiare di confondere i significati concettuali e pragmatici dei due termini. Per questo motivo riteniamo necessaria una distinzione per permettere una comprensione ed una efficacia diagnostica e terapeutica migliori.
Riassunto: Referring to the PTSD’s diagnostic classification, the DSM IV defines which diagnoses criteria have to be used to evaluate the symptoms of stress and trauma events. Defining stress and trauma as the cause of the same disease could lead us to confuse the conceptual and practical meaning of these two terms. Stress and trauma are two separate phenomenons: they can coexist but they have different effects on human being. Considering the PTSD’s diagnostic classification (DSM-IV) analysis, we propose a different categorization based on two different disturbs coming from stress and traumatic events respectively and we emphasize the how useful this distinction can be. We will firstly provide an historical and psychopathological overview of stress and trauma meaning, underlining their cause and effect differences. Then, we will examine the PTSD’s diagnostic classification in DSM IV and we will propose a different categorization based on a new definition of stress and trauma psychopathologic categories Finally we will focus on the distinction utility from the diagnostic and therapeutic point of view.
Parole chiave: stress, trauma psichico, disturbo post-traumatico da stress, prevenzione primaria, diagnosi precoce.
Introduzione
Lo stress e il trauma sono due fenomeni distinti, che possono coesistere e che hanno effetti differenti sull’uomo. Osserveremo dal punto di vista storico e psicopatologico il significato di stress e trauma e le loro differenze di causa ed effetto. In un secondo tempo, esamineremo la classificazione diagnostica del PTSD nel DSM IV e ipotizzeremo una ridefinizione diagnostica per le due categorie psicopatologiche di disturbi da stress e da trauma. Infine accenneremo all’utilità terapeutica della distinzione diagnostica da noi effettuata.
Stress
Il termine stress è stato mutuato dal gergo utilizzato nelle fabbriche durante la rivoluzione industriale inglese: si definiva, infatti, stress il grado di resistenza delle strutture metalliche nell’applicazione delle forze. Nel 1936 H. Selye utilizzò per la prima volta il termine stress per indicare una reazione fisiologica aspecifica dell’uomo a diversi stimoli (stressor) che possono essere di varia natura (fisica, chimica, biologica, emotiva, etc.). Egli definì come stressanti quegli stimoli capaci di aumentare la secrezione dell’ormone adrenocorticotropo, come si deduceva dall’aumento delle dimensioni della corticale del surrene delle cavie utilizzate nei suoi esperimenti. Interpretando il fenomeno quale conseguenza di una risposta sistemica dell’organismo, Selye parlò di “sindrome generale di adattamento”, di cui individuò tre fasi: una reazione di “allarme”, caratterizzata dall’attivazione del sistema simpatico. La fase seguente è la cosiddetta fase di “resistenza”, in cui assume un ruolo fondamentale l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attraverso la quale l’organismo cerca di trovare una forma di adattamento e di compensazione alla situazione di stress. Se però quest’ultima si protrae troppo a lungo si arriva alla terza ed ultima fase che è quella di “esaurimento”. In questo caso si determina uno stato di inibizione (neurovegetativo, endocrino, etc.) che si erano attivati per far fronte alla situazione di stress: ciò comporta un danno diretto ed irreversibile, di grado variabile, di alcune delle strutture coinvolte. Lo stress non è quindi da intendersi come risposta patologica; esso è, al contrario, fisiologicamente utile, consentendo l’adattamento dell’organismo alle più disparate condizioni. Nell’uomo la risposta agli stressor è mediata anche da fattori che sono collegati fondamentalmente ai processi cognitivi e all’emotività, quindi complessivamente alla personalità del soggetto. Secondo Pancheri, uno stressor induce una risposta che in primo luogo viene elaborata a livello cognitivo e successivamente valutata da un punto di vista emotivo: ogni singolo soggetto risponderà attivando sia una risposta di tipo puramente biologico sia una più strettamente comportamentale. La risposta biologica consiste, oltre all’attivazione dei processi già descritti, anche nella liberazione di endorfine responsabili, tra le altre cose, di una riduzione della sensibilità al dolore. La risposta comportamentale è invece dovuta a fattori più strettamente legati alla personalità del soggetto, al modo di reagire nei confronti di alcune situazioni, alla memoria delle precedenti esperienze vissute, ad una seria di modelli comportamentali appresi nell’ambito della società in cui vive l’individuo, alla possibilità concreta di poter modificare lo stato delle cose, etc. Andiamo ad analizzare i parametri per una corretta valutazione dello stress. La valutazione della reazione da stress deve sicuramente prescindere dalla durata nel tempo della situazione stressante. Questo è un fattore molto importante, perché è possibile che si creino dei danni reversibili e irreversibili sia sul piano fisico che su quello psichico, se la reazione da stress non dura un tempo limitato. Si possono, così, determinare patologie che coinvolgono l’organismo sul piano somatico (ipertensione, ulcera gastrica o duodenale, malattie intestinali, respiratorie, etc.) nel caso si abbia uno scompenso della risposta biologica; se invece prevale una risposta di tipo psicologico-comportamentale, si possono manifestare una serie di disturbi psichici, come ad esempio la depressione. Da questo fattore di temporalità dello stress, possiamo dedurre un elemento caratterizzante la specificità dello stress, ossia la sua “condizione situazionale”: la reazione di stress ad uno stimolo è strettamente legata alla durata dell’azione dello stressor, che non determina modificazioni fisiche e/o psichiche oltre la durata dello stimolo stressante; in altre parole, quando cessa la condizione ambientale stressante, termina lo stress. Le risposte ad uno stress variano in base ad altri due parametri oltre a quello già citato di temporalità: intensità e prevedibilità. E’ evidente, infatti, che la specificità di reazione viene ad essere meno spiccata qualora si presenti uno stress improvviso, che richieda un’immediata capacità di reazione, senza troppe possibilità di reazione. Ciò avviene, ad esempio, in caso di calamità naturali ed altri eventi imprevedibili che non consentono all’uomo di elaborare una risposta elaborata. Al contrario, in caso di situazioni stressanti prevedibili, non improvvise o di intensità non eccessiva, le capacità di adattamento saranno più specifiche in relazione al tipo si stressor e al tipo di risposta elaborabile a livello congnitivo-emotivo. Ultimo, e non meno importante, fattore del verificarsi della reazione di stress è l’atteggiamento psicologico con il quale l’individuo affronta una situazione stressante. Alcuni meccanismi, come l’avere una rete di relazioni sociali che sostiene l’individuo nei momenti difficili, la capacità di prevedere, di affrontare o di evitare un evento stressante, possono essere senza dubbio dei fattori positivi nell’elaborazione di una risposta. Proprio sulle aspettative che il singolo soggetto nutre nei confronti della situazione stressante, Levine e Ursin hanno basato la loro classificazione di tre diverse modalità di reazione allo stress: “coping”, “helplessness”, “hopelessness”. Come “coping” si può intendere la capacità di fronteggiare una determinata situazione di minaccia o di sfida, basata sulla aspettativa di un risultato favorevole. L’”helplessness” (abbandono, mancanza di possibilità di aiuto) corrisponde ad un senso di impotenza, di incapacità e il soggetto ritiene che esista una probabilità molto bassa che le risposte disponibili porteranno ad una conseguenza positiva. Con l’”hopelessness” (mancanza di speranza) l’individuo ha acquisito con l’esperienza l’idea che le risposte possibili porteranno ad eventi negativi o contrari, quali una punizione. Ne deduciamo che il tipo di esperienze vissute in precedenza, in particolare nei primi anni di vita, insieme ai fattori intrinseci all’evento stressante stesso, può determinare il prevalere di un atteggiamento psicologico rispetto ad un altro e può predisporre quindi maggiormente l’individuo ad un atteggiamento di timore, di ansia, di incapacità di gestire una situazione stressante.
Trauma
Possiamo sinteticamente definire il trauma psichico “una lacerazione improvvisa, violenta ed imprevedibile dell’integrità psichica, capace di provocare un’alterazione permanente delle capacità di adattamento del soggetto”. Tale definizione è resa possibile dall’evoluzione storica del concetto di trauma, in medicina, infatti, con il termine trauma, si è sempre inteso: “una ferita, o lesione, provocata da una violenta causa esterna”. In effetti, il concetto di trauma ha sempre sott’inteso l’idea di qualcosa di visibile, di fisico. Furono Breuer e Freud ad introdurre il concetto di “trauma psichico”, come movente eziopatogenetico delle nevrosi, in particolare la nevrosi isterica. Freud definì il trauma psichico un “incremento di eccitazione nel sistema nervoso centrale, che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria”, ed ancora “un’esperienza d’impotenza dell’Io di fronte ad un accumulo di eccitamenti, esterni o interni.” Ritornando alla nostra definizione, le caratteristiche dell’evento traumatico, che ci preme sottolineare ai fini della distinzione tra stress e trauma, sono la “subitaneità” e “l’imprevedibilità”, caratterisitche che “non permettono manovre difensive immediate” (A. Freud), cioè, come dice Lebigot, il soggetto non trova nell’inconscio rappresentazioni per accogliere, legare o modificare l’esperienza vissuta, e dunque per gestirla; “Ognuno sa che dovrà morire”, disse Freud, “ma nessuno ci crede veramente, il ché significa che non ci sono nell’inconscio rappresentazioni di sè come morti (viviamo tutti come se fossimo immortali)”. Ed è proprio questa rappresentazione che si è imposta nell’istante del traumatismo. Immaginando l’apparato psichico come una cellula, l’evento traumatico ne perfora la membrana impedendone la restitutio ad integrum; la risposta del soggetto a tale evento è ciò che determina la sintomatologia; oltre ai disturbi dell’immediato post-trauma, la ripetizione, la negazione, l’evitamento, tipiche manifestazioni sono la tendenza ad escludersi dal mondo, le fobie, la vergogna, che caratterizzano una serie di turbe del comportamento: violenza auto ed eteroaggressiva, alcolismo, e in particolar modo ritiro sociale. Secondo Pancheri, l’intervento di meccanismi di difesa come spostamento e proiezione porterebbe ad una patologia che si esprime a livello comportamentale e che, a seconda del grado di regressione, va da lievi forme di nevrosi d’ansia fino alle psicosi disorganizzate. Dall’altra parte, l’intervento di meccanismi difensivi come rimozione e diniego porterebbe ad una patologia somatica che, a seconda del grado di regressione, va dall’isteria di conversione fino al cancro. La comparsa di queste manifestazioni dipenderà da una variabilità individuale determinata dalla resistenza della barriera protettiva dell’Io e dalle capacità di adattamento del soggetto. Per spiegare tale variabilità, in America, è stato introdotto il concetto di “resiliency”: si tratta di un processo attraverso il quale il soggetto si inserisce in un contesto affettivo, sociale e culturale. Questo processo dipende dalle risorse interne acquisite fino al momento del trauma, che permettono di collocare e dare significato all’evento all’interno della propria storia personale. In un individuo traumatizzato è sempre rinvenibile un evento, o più eventi (trauma cumulativo), che hanno un effetto patogeno sul processo di strutturazione dell’Io. In tali soggetti il tempo sembra essersi fermato all’evento traumatico, essi lo rivivono costantemente, agiscono e sentono come se l’evento fosse ricorrente; Freud dice: “(…) le pazienti sembrano “fissate” ad un determinato periodo del loro passato, sembrano non sapersene liberare, sembrano perciò estraniate dal presente e dal futuro.”
PTSD
Il DSM-IV pone come criteri diagnostici del PTSD l’insieme dei sintomi che seguono l’esposizione ad un evento traumatico estremo, che implichi morte o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fissica propria o di altri (Criterio A1). In risposta a tale evento il soggetto potrà manifestare paura intensa, sentimenti di impotenza e di orrore (Criterio A2). I sintomi tipici successivi all’evento traumatico sono: la “ripetizione”, in forma di ricordi intrusivi, sogni, illusioni, allucinazioni, flashback, (Criterio B); l’“evitamento”, legato al disagio psicologico provato all’esposizione di fattori scatenanti simili all’evento traumatico, e l’attenuazione della reattività generale, la diminuzione dell’affettività, la perdita di prospettive per il futuro, (Criterio C). A ciò si associano segni di aumentato “arousal” in forma di alterazioni del sonno, modificazioni del tono dell’umore e della concentrazione. (Criterio D). In un soggetto con questi sintomi, per fare diagnosi di PTSD, devono essere rispettati criteri di temporalità esplicitati nel Criterio E: la sintomatologia deve durare per almeno un mese. Per concludere, in base al Criterio F, “il disturbo deve causare un disagio clinicamente significativo o una menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti”. Osservando questi criteri diagnostici, notiamo che l’insieme dei sintomi comprende, sia manifestazioni e segni tipici del disturbo da trauma (ad esempio: pensieri intrusivi, allucinazioni, flashback, intensa angoscia nel Criterio B; negazione ed evitamento nel Criterio C), sia reazioni conseguenti a condizioni stressanti (ad esempio: ansia, alterazioni del tono dell’umore, disturbi del sonno, ipervigilanza, difficoltà di concentrazione nel Criterio D). Applicandoli in modo ortodosso, rischiamo di non poter includere soggetti che non presentano contemporaneamente sintomi da stress cronico e disturbi da trauma, per i quali è comunque necessario ipotizzare un trattamento.
Ipotesi diagnostica e differenziazione terapeutica
Facciamo degli esempi mutuando i termini dalla clinica ortopedica. Quando gli arti inferiori vengono sollecitati da stimoli o sforzi eccessivi e prolungati (allenamenti faticosi, carico eccessivo di pesi, sport agonistici, etc.), si ha una reazione di tensione (stress) all’interno della struttura ossea che può portare a lungo andare a indolenzimento, affaticamento per sforzi minimi, ipofunzionalità dell’arto. Di contro, quando un arto subisce un colpo (diretto o per caduta) improvviso e violento, il femore, la tibia o il perone possono fratturarsi creando quindi una perdità di contiunuità nella struttura ossea dell’arto. La terapia applicata alle due condizioni morbose sarà differente: riposo e astensione da sforzi per l’eccesso di stress fisico; operazione chirurgica e/o ingessatura per la frattura da trauma. Allo stesso modo siamo convinti che in clinica psichiatrica si possano distinguere e quindi definire due approcci terapeutici per curare i disturbi da stress e quelli da trauma: in questo modo si potranno avere migliori risultati a breve termine in seguito a cure differenziate e specifiche. Secondo Mc Farlane (1990) un qualsiasi evento gravemente stressante, carico di valenze emotive e di potenziale o reali conseguenze dirette sull’integrità e la sopravvivenza della persona, può non essere necessariamente seguito dal manifestarsi della sindrome di PTSD in almeno il 50% dei soggetti. Molti individui, però, potranno presentare sintomatologie più sfumate, o semplicemente non assimilabili ai criteri diagnostici del DSM-IV, ma non per questo meno non richiedenti un intervento diagnostico e terapeutico precoce. Per ottenere tale efficacia proponiamo l’utilizzo di due categorie diagnostiche che classifichino i disturbi da stress (DSC) e i disturbi da trauma (DPT) separatamente. Ipotizziamo di conseguenza due terapie specifiche ed eventualmente correlabili. Le misure più discusse in letteratura relative al trattamento dello stress sono volte principalmente ad eliminare i fattori stressanti o ad attenuarne la forza, a ridurre l’attivazione psico-organica generata dallo stress e in particolare ad apprendere strategie di gestione dell’ansia. L’obiettivo ottimale è quello di strutturare un range sufficientemente ampio di capacità personali e interpersonali per fronteggiare l’evento stressante in modo efficace, come ad esempio l’apprendimento di nuove abitudini di vita più salutari (teciniche di rilassamento come training autogeno, biofeedback, yoga, etc.), una ridefinizione del significato e dell’importanza della situazione stressante attraverso un processo di valutazione cognitiva (riconnotazione positiva dell’evento e parcellizazione del problema), massimizzare le risorse di coping disponibili, etc. Una presa in carico precoce di un individuo vittima di trauma permette al soggetto di raccontare i fatti accaduti, i pensieri e le emozioni che egli ha provato prima, durante e dopo l’esperienza traumatica e, quindi, di elaborare da subito “verbalizzandoli” gli eventi vissuti, prima che si instauri e si aggravi il fenomeno della ripetizione (Lebigot, 2004): tanto più tempestivamente sarà iniziato tale lavoro all’interno di una relazione transferale, tanto maggiori saranno le chances di successo terapeutico nell’evitare la cronicizzazione dei disturbi.Nell’ambito di eventi catastrofici, ad esempio, che coinvolgono un’intera comunità può essere realizzato un “debriefing” individuale o collettivo prontamente dopo l’evento traumatico e nei giorni successivi: questo primo e immediato contatto può avere notevole efficacia sugli aspetti di vergogna e abbandono (Lebigot) del traumatizzato. In seguito si possono elaborare ed apprendere soluzioni comportamentali nuove ed eliminare i meccanismi di difesa maladattivi tipici del post-trauma, quali diniego, dissociazione, proiezione e identificazione con l’aggressore per i disturbi da trauma. Nell’ambito di una prevenzione primaria rivolta a personale facente parte di categorie a rischio (come vigili del fuoco, forze dell’ordine, etc.) può essere interessante analizzare le caratteristiche di personalità e i relativi processi di coping dei soggetti resistenti (forza dell’io, hardiness -robustezza psicologica-, umorismo e ottimismo, secondo Batoli e Bonaiuto,1997), in modo da poter attuare sia una più mirata selezione del personale preposto a compiti stressanti e rischiosi, sia stimolare, negli individui con caratteristiche personologiche predittive favorevoli allo sviluppo di disturbi da stress cronico, il potenziamento di quei tratti di personalità utili come funzione protettiva.
Conclusioni
Riteniamo utile porre i disturbi da stress cronico e da trauma psichico in due categorie diagnostiche differenti ai fini di una prevenzione primaria in caso di categorie a rischio, di una diagnosi precoce e di un approccio terapeutico specifico e differenziato che riducano la percentuale di processi di cronicizzazione dei meccanismi secondari ai disturbi da stress e da trauma ed eventualmente impediscano anche la messa in atto di tali meccanismi nocivi e cronicizzati.
Nota: le argomentazioni trattate sono tuttora oggetto di studio presso il nostro servizio, nell’ambito di una ricerca più ampia relativa alla differenziazione tra stress e trauma ed alle conseguenti implicazioni psicopatologiche e terapeutiche.
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